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QUATTRO CASTELLI UN COMUNE

(tratto dal libro FALCONARA - Storie e immagini, di Giuseppe Campana, Giorgio Marinelli, Gilberto Piccinini, Sirio Sebastianelli)

 

 

Le origini

Il territorio che oggi costituisce il Comune di Falconara Marittima è stato oggetto di insediamenti umani fin dalla preistoria

Armi ed utensili in pietra del neolitico sono stati ritrovati a Barcaglione, secondo quanto riferiscono Ciavarini, Bevilacqua e De Bosis nella Guida illustrata di Ancona, pubblicata nel 1870: i reperti sono tra quelli andati dispersi a causa dei danni bellici subiti nel 1944 dal Museo Nazionale delle Marche di Ancona, che aveva allora la propria sede nell'ex convento di S. Francesco alle Scale.

Di recente sono stati segnalati ritrovamenti di materiale fittile, punte di lance, asce in pietra, oggetti in osso lavorato in terreni di Falconara Alta e Castelferretti.

Documentato è anche il rinvenimento, a Falconara Alta, di un frammento di martello-ascia appartenente alla civiltà eneolitica.

La presenza, poi, di un abitato piceno a Falconara Alta è stata segnalata dalla prof. Delia Lollini, Soprintendente archeologo per le Marche, in una pubblicazione del 1977.

Dell'epoca romana resta la cisterna in località Tesoro, forse parte di un acquedotto o deposito per le acque di una vicina villa patrizia: tutto il complesso è riferibile al primo secolo d.C.

Nello stesso luogo sono stati frequenti, in passato, i ritrovamenti di tombe mentre è possibile anche oggi osservare tratti di selciato di strada e rinvenire, sparsi per la vicina campagna, frammenti di anfore, tessere di mosaico per pavimenti, tegole per lo scolo delle acque.

Nel castello di Falconara, durante i lavori di restauro, sono venute alla luce opere in muratura, oggi visibili attraverso lastre di vetro, che si fanno risalire ad epoca romana.

A Castelferretti, alcuni ruderi situati nei pressi del ponte di S. Sebastiano, lungo il Fossatello, farebbero pensare ai resti di un ponte romano, mentre è documentato il ritrovamento di monete romane avvenuto in terreni dello stesso paese.

Nel mare di fronte a Palombina Vecchia, a circa duecento metri dalla linea di spiaggia ed in corrispondenza del casello ferroviario, è stato infine localizzato, nel 1970, il relitto di una nave romana, su segnalazione del Centro di Attività Subacquee di Ancona.

A cura della Soprintendenza archeologica per le Marche sono stati parzialmente recuperati alcuni campioni delle ordinate e del fasciame della nave nonchè alcune anfore del carico, che oggi fanno parte delle collezioni del Museo Nazionale delle Marche.

L'apertura di alcuni scavi, la prosecuzione degli studi, sia generali che in particolare sulla viabilità marchigiana, potranno gettare un pò più di luce sulla localizzazione e sulle origini degli insediamenti che hanno determinato la nascita e lo sviluppo della città.

Allo stato attuale delle ricerche è opportuno fissare un punto d'inizio, più convenzionale che reale, delle vicende storiche cittadine, identificandolo nella costruzione dei castelli di Falconara, Barcaglione, Rocca Priora e Castelferretti.

Il castello sorge, com'è noto, con compiti di difesa di un determinato territorio in posizioni, altura, guado o riva ad esempio, che ne fanno un'opera strettamente collegata ed integrata con l'ambiente circostante.

Nel castello si riparano, per ottenere la protezione del signore del luogo in caso d'invasione, i contadini fuggiti dalla campagna circostante con le famiglie, le provviste, il bestiame.

Con la edificazione dei quattro castelli, che hanno origini e storie diverse tra loro, anche nel falconarese si costituiscono delle comunità che, proprio all'ombra della relativa sicurezza offerta dalle fortificazioni, iniziano a lavorare, produrre e ad intessere quei rapporti sociali ed economici che porteranno, attraverso varie vicende, alla formazione del Comune di Falconara Marittima.

 

 

I castelli

FALCONARA. Presso l'archivio della chiesa di S. Giovanni Battista di Ancona è conservato un documento che riporta la denominazione di una località che potrebbe coincidere con l'odierna Falconara Alta, il nucleo originario di Falconara.

Si tratta del cosiddetto Privilegio Magno, rilasciato dal papa Innocenzo IV nel 1252 ai monaci del monastero di S. Giovanni "in Peneclaria", in cui si nomina un fundus falconarie.

Tale documento, che conferma ai monaci il possesso di alcuni beni, richiama due precedenti pergamene del 1051 e del 1188.

Nelle Rationes Decimarum degli anni 1290-1292 sono riportati alcuni pagamenti di decime effettuati ad una chiesa di S. Marie Montis Falconarii, che può essere identificata con l'odierna chiesa di S. Maria delle Grazie.

Ma il momento fondamentale, e che diede origine in qualche maniera al centro abitato di Falconara, è la costruzione del castello.

Sull'epoca di edificazione si possono fare solo delle ipotesi: tuttavia alcuni documenti successivi fanno ritenere, con fondamento, che anche a Falconara, attorno all'anno Mille, esisteva una piccola comunità rurale soggetta ad un feudatario ed organizzata secondo gli schemi dell'economia curtense.

E' ormai d'uso accettare la tradizione, accolta da quasi tutti gli storici anconitani, secondo cui la costruzione del castello fu opera dei conti Cortesi, discendenti di un condottiero germanico giunto in Italia con Belisario nel secolo VI, al tempo delle guerre tra Bizantini e Goti.

I Cortesi entrarono in possesso di terre nei dintorni di Ancona dove edificarono, in tempi successivi, i castelli di Falconara, Varano e Sirolo.

Il loro stemma era un falcone coronato con le ali aperte dal mezzo in su e, dal mezzo in giù, con le gambe torte all'indietro.

Tale tradizione si rifà alla storia redatta da Pietro Graziani, vissuto sul finire del Quattrocento e marito di Diana Cortesi, discendente della nobile famiglia.

Il documento è conservato, in copia redatta nella seconda metà del Cinquecento dal cancelliere Francesco Maria Beldoni, presso l'Archivio storico comunale di Ancona.

Ma già il Peruzzi, nel secolo scorso, ha messo in dubbio la narrazione del Graziani per la presenza di alcuni elementi leggendari ed inconciliabili con le reali vicende storiche del tempo.

Occorre poi dire che non erano infrequenti, nei secoli passati, i tentativi di accreditare con scritti e memorie, che spesso risultavano frutto di fantasia, le nobili origini di ricche famiglie.

Così può essere stato anche con i Cortesi.

A questo proposito vogliamo ricordare che Bartolomeo Alfeo, umanista del Cinquecento ed autore di una storia di Ancona, metteva in relazione la fondazione di Falconara con la calata in Italia di Brenno, condottiero dei Galli, avvenuta alla fine del IV sec. a.C.

Sempre secondo l'Alfeo dopo la sconfitta di Brenno da parte di Furio Camillo, tre fratelli Cortesi si sarebbero fermati nell'agro piceno ed uno di essi, il minore, avrebbe fatto edificare il castello di Falconara "molto ampio e bello et nominandolo dal nome suo, chiamandosi M. Falcone".

In epoca più recente il racconto del Graziani è stato riesaminato dal Canaletti-Gaudenti, il quale afferma che l'origine germanica del capostipite dei Cortesi non deve meravigliare, in quanto non erano così rari i casi in cui popoli germanici fossero alleati dei Bizantini.

Gli stessi Goti superstiti dopo la disfatta subita nel 552 erano rimasti alle dipendenze dell'impero di Bisanzio come soldati mercenari.

Secondo il Canaletti-Gaudenti è quindi probabile che uno dei Cortesi abbia avuto in premio alcune terre nelle pertinenze occidentali e meridionali della città di Ancona, occupando, in posizione collinosa e geograficamente importante, un'antica villa romana o un preesistente fortilizio, oppure semplicemente un vasto territorio che ha poi, nei punti più strategici, presidiato di torri.

I presidi, poi, dovrebbero aver dato origine ai castelli di Falconara, di Varano e, in seguito, a quello di Sirolo.

Il Cardinaletti-Gaudenti fa anche l'ipotesi che il nome dei Cortesi derivi proprio dalle curtes di cui entrarono in possesso.

L'intera questione è stata anni fa riesaminata dal Natalucci in un articolo apparso sulla "Rivista di Ancona".

Il Natalucci, pur ritenendo teoricamente accettabile l'ipotesi formulata dal Canaletti-Gaudenti, la confuta in alcune sue conclusioni e tenta di inserire la particolare vicenda di Falconara in maniera coerente ai convulsi avvenimenti che si susseguirono nel Piceno dopo le prime invasioni barbariche.

Infatti, secondo il Natalucci, dopo la già ricordata sconfitta dei Goti, Ancona ed il suo territorio passarono sotto il dominio bizantino e il centro politico della Pentapoli, di cui la città faceva parte, divenne Ravenna.

Con la successiva invasione dei Longobardi, nella seconda metà del secolo VI, gran parte del Piceno venne occupata e furono travolti i presidi e i fortilizi della nobiltà bizantina.

Ai Longobardi, poi, nella seconda metà del secolo VIII, succedettero i Franchi provocando nuovi sconvolgimenti politico-territoriali.

Una tale situazione di continua e perdurante crisi delle istituzioni politiche ed amministrative aveva provocato un decadimento dei centri abitati e un generale abbandono delle attività produttive.

Le popolazioni avevano cercato rifugio e protezione nelle istituzioni ecclesiastiche.

Ciò aveva favorito, dal VII al IX secolo, la formazione, nelle terre della Pentapoli, di un vasto patrimonio fondario di proprietà dell'arcivescovo di Ravenna che, in contrasto con il pontefice, si considerava erede dell'Esarca bizantino e vantava diritti temporali non solo sulla Romagna, ma sulla stessa Pentapoli.

Quanto sopra risulta, secondo il Natalucci, da documenti reperibili presso l'Archivio arcivescovile di Ravenna; sembra poi che a Falconara, secondo una nota del Peruzzi, esistesse una chiesetta dedicata a S. Apollinare, che lascia pensare alla reale presenza di beni ravennati nel Falconarese.

Contemporaneamente al patrimonio della chiesa ravennate, si era sviluppato quello non meno considerevole delle comunità monastiche, che si erano sparse a poco a poco, a partire dal VII secolo, lungo la vallata dell'Esino.

Ci par sufficiente ricordare il monastero benedettino di S. Lorenzo in Castagnola, posto nella selva omonima a sud-ovest di Chiaravalle, lungo la via detta Anconitana e quello di S. Maria in Castagnola, che divenne successivamente l'abbazia cistercense di Chiaravalle.

A proposito della selva di Castagnola, che si estendeva dal territorio di Jesi fin quasi al mare, ricordiamo che il nome, secondo recenti interpretazioni, deriva non dalla presenza in essa di castagni bensì di un particolare tipo di quercia le cui infruttescenze erano appunto chiamate "castagnole" ed erano usate, in tempi di carestia, anche per l'alimentazione umana.

Sempre secondo il Natalucci, la formazione di una casta feudale nelle terre dalla vecchia Pentapoli si compì proprio attraverso la dissoluzione delle proprietà dell'arcivescovo di Ravenna e delle comunità monastiche, prima attraverso regolari contratti enfiteutici a lunga scadenza e quindi attraverso l'occupazione permanente delle curtes , in cui sorsero, come abbiamo detto, tra i secoli XI e XIII, i castelli.

I Cortesi sarebbero quindi, secondo questa ipotesi, da considerarsi appartenenti a quella nobiltà rurale, i conti rurali appunto, che si afferma dopo i secoli drammatici delle invasioni, quando si assiste al risvegio della vita e delle attività civili.

Alcuni studiosi li hanno identificati con quei signori del Conero che edificarono l'abbazia di S. Pietro, sul monte, e quella di S. Maria di Portonovo, ai suoi piedi.

Un'altra questione controversa riguarda l'origine del nome Falconara.

Secondo il già citato Graziani, il nome deriverebbe dallo stemma gentilizio dei Cortesi mentre secondo altre interpretazioni, che sembrano più probabili, il nome viene posto in relazione con l'esercizio della caccia con il falcone, molto diffuso nel Medioevo: a sostegno di quest'ultima ipotesi ricordiamo che in alcune autentiche carte geografiche il luogo è denominato "Lo Falconaro".

Un anno fondamentale per la storia di Falconara è il 1225 quando, sempre secondo il racconto del Graziani, essendo pontefice Onorio II e imperatore Federico II, i conti Cortesi, Gentili, Pietro, Rinaldo, Ugolino, Guido, Vinciguerra suo figlio e Matteo suo nipote "spontaneamente, di loro libera volontà" si diedero con i loro castelli di Falconara, Varano e Sirolo in protezione del comune di Ancona.

I conti Cortesi ebbero la cittadinanza anconitana e furono aggregati "al pubblico consiglio e nobiltà di Ancona"; ebbero inoltre gli "onori, prerogative, privilegi, esentioni ed officii" che gli altri nobili cittadini originari godevano nella città; giurarono sottomissione e fedeltà ad Ancona che, a sua volta, promise di difenderli.

Di questa aggregazione e della relativa convenzione parlano, tra gli altri, il Ferretti, il Saracini, l'Albertini, il Leoni, il Peruzzi.

In altre opere di storici anconitani si cita Falconara in riferimento agli avvenimenti accaduti verso la metà del secolo XIV, nel periodo in cui la Chiesa aveva quasi completamente perduto il controllo dei suoi possedimenti.

I territori della Marca erano soggetti alle incursioni delle compagnie di ventura; tra esse era particolarmente famosa per la sua ferocia la Gran Compagnia di fra' Moriale, che nel 1353 mise a sacco molte città e castelli, tra cui Falconara che si arrese solo a patto che fossero risparmiate le persone, come è riferito nella cronaca di Matteo e Filippo Villani: "... e presono la Falconara a patti, salve le persone".

Si ritrova poi il nome di Falconara nella Descriptio Marchiae Anconitanae che risale al 1356, al tempo del cardinale Egidio Albornoz, la cui opera di restaurazione dello Stato della Chiesa pose le premesse per il ritorno del papa a Roma da Avignone.

Nella Descriptio, Falconara, Barcaglione e Fiumesino sono nominati tra i "castra" che la "Civitas Anconitana habet sub se".

In seguito all'annessione ad Ancona, Falconara divenne una delle castella del contado, pur mantenendo una limitata autonomia amministrativa.

Nei documenti e nei sigilli apparirà la dicitura "Comunitas Castri Falconarii", Comunità del Castello di Falconara, dove con il termine Castello si designa non solo il singolo edificio ma, come già accennato, l'intero nucleo abitato sviluppatosi intorno ad esso.

 

BARCAGLIONE. Sul punto più elevato del territorio comunale, a 204 metri sul livello del mare, è possibile anche oggi osservare, sia pure a fatica, alcuni ruderi che potrebbero essere attribuiti all'antica rocca o torre di Barcaglione.

Le notizie sono molto scarse: la rocca risulta, dalla già citata Descriptio Marchiae, appartenere ad Ancona intorno al 1356.

Nel 1373 si dette al conte Lucio, tedesco, capitano generale della lega contro la Chiesa, che si apprestava ad attaccare Ancona.

Secondo Oddo di Biagio, le "persone fonno poste in preda, et le robbe ad saccomanno", nonostante la resa.

Partito il conte Lucio, il comune di Ancona fece abbattere, per punizione, la rocca ed il materiale venne usato per la riparazione delle mura di Ancona e, forse, anche del castello di Falconara.

 

ROCCA PRIORA. Quella che oggi conosciamo con il nome di Rocca Priora è nota fin dai primi secoli dopo il Mille come Rocca di Fiumesino.

Lo storico Baldassini mette in relazione le sue origini con la nascita di Federico II di Svevia, avvenuta a Jesi il 26 dicembre 1194.

Secondo tale fonte la città, in memoria del fausto evento, avrebbe fatto innalzare la Rocca alla foce del fiume Esino, sulla riva sinistra, per difendere i propri confini dagli attacchi di Ancona.

Secondo il Saracini gli Anconitani, ben consapevoli dell'importanza della Rocca, l'avrebbero acquistata durante il pontificato di Innocenzo III (1198-1216).

Queste notizie consentono di intravedere il successivo svolgimento delle vicende storiche della Rocca, imperniate principalmente sulle guerre tra le città di Ancona e di Jesi, protrattesi per secoli e miranti al suo possesso, che avrebbe garantito a Jesi lo sbocco verso il mare e ad Ancona il controllo delle vie di accesso da nord e da nord-ovest e del mare antistante.

Sulle vicende della Rocca, in relazione alla storia di Ancona, Daniela Baldoni ha pubblicato un'interessante monografia e ad essa rimandiamo per ulteriori approfondimenti.

E' sufficiente qui ricordare che la Rocca, come indicato in precedenza, intorno al 1356 risulta elencata tra i castelli dominati dalla città di Ancona.

Nel 1382 ne prese possesso Luigi d'Angiò con il suo esercito che il cronista anconitano Oddo di Biagio definisce "famelico et sitibundo".

Dieci anni dopo il Consiglio degli Anziani di Ancona decide di far riparare e fortificare la Rocca, deliberando successivamente la nomina del nobile Balligano di Filippuzio dei Balligani a castellano.

Nella Rocca, siamo nel 1446, fu stipulato l'atto di armistizio tra il cardinale Scarampo e la città di Ancona.

Dopo alterne vicende dovute al riaccendersi delle questioni territoriali tra Ancona e Jesi, un intervento del pontefice Leone X assegnò definitivamente, nel 1516, la Rocca al comune di Ancona, che intraprese un'importante opera di bonifica delle terre che si estendevano intorno ad essa e che a causa delle dispute ed anche delle frequenti piene del fiume Esino, erano rimaste improduttive.

Le terre, come riferisce il Peruzzi, furono divise tra i Consiglieri che dovevano versare la Comune, ogni anno, "una coppa di frumento per ogni soma di seminato".

Quando nel 1547 venne ricostituito ad Ancona il Monte di Pietà, il Comune stabilì che le rendite dei terreni della Rocca fossero devolute ad esclusivo beneficio del Monte stesso.

In seguito, verso la fine del XVI secolo, il pontefice Sisto V dispose che i profitti ricavati dai terreni fossero destinati, per quattro anni, alla costruzione del Monastero di S. Palazia.

Nel Seicento la Rocca svolse un ruolo determinante nella difesa di Ancona e divenne sede di una guarnigione militare con compiti di vigilanza contro gli attacchi di Venezia e dei pirati turchi.

Nella seconda metà del secolo XVIII il Comune di Ancona, nel tentativo di favorire la ripresa economica del territorio, cedette in affitto, mediante asta pubblica, la Rocca e le terre di Fiumesino.

La concessione enfiteutica viene assegnata a Francesco Trionfi (1706-1772), ricco mercante di Ancona, titolare della maggiore casa di commercio della Marca e cointeressato a varie imprese industriali, società di assicurazioni e privative.

Il contratto, firmato nel 1755 e registrato l'anno successivo, prevede che l'enfiteusi sia perpetua e trasmissibile, che vi sia diritto all'uso della Rocca, all'istituzione di una fiera franca di tre giorni e che il canone annuo sia di 2.105 scudi.

Il Trionfi investe cifre cospicue in piantagioni, restauri di fabbricati, acquisto di bestiame, sistemazione delle acque, tanto che, all'atto dell'apertura del suo testamento i periti conteranno 104 bovini grossi e 134 piccoli, 8.800 alberi diversi 27.400 piante di vite.

La stessa Rocca, che prende il nome di Rocca Priora, subisce profonde modificazioni con la costruzione del portale d'ingresso, della cappella e di locali per uso abitativo: l'antica fortezza medievale perde così il suo originario carattere militare per assumere la funzione di villa padronale al centro della vasta tenuta agricola.

Nel 1757 Francesco Trionfi, precedentemente patrizio di Ancona, riceve dal papa Benedetto XIV l'investitura sul fondo posseduto con il titolo di marchese di Rocca Priora, trasmissibile agli eredi in linea maschile.

Dopo il raggiungimento del successo economico, il Trionfi entra così a pieno diritto nella nobiltà anconitana, con il riconoscimento dei titoli spettanti ai propri avi, anche se sussiste qualche perplessità sul modo in cui erano stati raccolti alcuni remoti attestati araldici.

Alla morte del Trionfi, come già accennato, il patrimonio era talmente elevato che un curioso aneddoto, appartenente alla tradizione familiare, racconta che il figlio esclamasse: "Come farò a spendere tutto questo denaro?".

Passata prima al figlio Luigi e poi al secondo genito Bonizio, l'intera proprietà venne acquisita nel 1826 dalla Camera Apostolica per 56.000 scudi a causa dell'impossibilità, per Bonizio Trionfi, di pagare i canoni e le tasse arretrate richieste dal Governo Pontificio.

Come ogni Rocca che si rispetti, anche qui un famoso personaggio ha trascorso una notte: si tratta di Gioacchino Murat che vi soggiornò il 29 aprile 1815, poco prima che si concludesse con la disfatta, a Tolentino, la sua utopistica impresa di combattere per l'unità e l'indipendenza d'Italia.

Va poi segnalato che proprio nella Rocca, e precisamente nella casa juxta horologium, nacque Pasquale Andreoli, aeronauta e pioniere del volo, noto soptrattutto per aver raggiunto nel 1808, con il suo pallone aerostatico, l'altitudine di circa 8.000 metri.

Una recente ricerca, svolta presso l'Archivio parrocchiale di Falconara Alta, ci ha consentito di accertare la data di nascita dell'Andreoli, riportata in modo non corretto in alcune pubblicazioni.

Dal "Libro VII" dei battesimi, relativo agli anni 1735-1771, si rileva che Giuseppe Maria Pasquale Andreoli nacque il 22 novembre 1771 da Marco, fattore dei Trionfi, e da Maria Moracci e che venne battezzato il 24 successivo nella chiesa di S. Maria delle Grazie di Falconara.

 

CASTELFERRETTI. L'edificazione del castello, e la stessa storia del paese, sono strettamente legate alle vicende della famiglia Ferretti, che ha posseduto questo territorio dai primi del Duecento fino a tutto il Settecento, esercitandovi i diritti feudali dal 1397.

Sei secoli fa, nel 1384, Francesco Ferretti, discendente da uomini d'arme e condottieri originari della Germania venuti in Italia nel primo Duecento, chiede ed ottiene dal vicario generale della Marca anconitana Andrea Bontempi di poter trasformare un'antica torre di guardia, posseduta nella piana de' Ronchi, tra Falconara e Chiaravalle, in un luogo fortificato capace di contenere armati, vettovaglie e bestiame.

E' il primo atto con cui si dà l'avvio all'edificazione di un munito castello a custodia delle proprietà che i Ferretti possiedono tutt'intorno creando insieme una buona piazzaforte a completamento del sistema difensivo del territorio anconetano.

All'incirca negli stessi anni vengono ristrutturate quasi tutte le altre rocche dislocate lungo i confini anconitani da Bolignano, al Cassero, a Fiumesino, onde poter meglio difendere la città dalle scorrerie delle armate angioine impegnate nella guerra tra i fedeli del papa Urbano VI e i seguaci dell'antipapa avignonese Clemente VII.

Una controversia scaturita sì dalla faziosità dei cardinali francesi contrastanti il potere del collegio cardinalizio dominato dagli italiani, ma motivata pure da un malcelato interesse del partito di Luigi d'Angiò di conquistare e sottomettere parte delle terre dello Stato della Chiesa.

La costruzione del castello è completata nel giro di pochi anni tanto che nel 1397 Francesco Ferretti viene nominato conte di Castel Francesco da papa Bonifacio IX.

La contea, su cui i Ferretti godono delle stesse immunità e dei privilegi concessi ai nobili palatini, si estende dal fiume Esino ai confini con il territorio di Ancona a quelli con le proprietà dei benedettini cistercensi di S. Maria in Castagnola di Chiaravalle, in una pianura fertile e ricca di acque occupante in patrte l'antico alveo dell'Esino ormai asciutto per la deviazione subita dal fiume dopo le ripetute frane delle rupi di Jesi.

Il riconoscimento del feudo ai Ferretti, famiglia di spicco nel governo di Ancona, dà luogo ad una disputa tra Anconitani e Jesini per il possesso delle terre al di qua e al di là dell'Esino che nel Quattrocento sfocia in duri scontri tra gli eserciti delle due città.

Della questione territoriale, chiusasi solo nei primi decenni del XVI secolo, restano parecchi documenti, anche cartografici, che ben introducono nell'ambiente in cui vivono ed operano gli abitanti di Castel Francesco nei primi anni di sviluppo del centro abitato.

Il castello offre una sicura abitazione agli agricoltori che lavorano nei campi circostanti e agli artigiani dediti ad attività di sostegno all'economia agraria.

Secondo la descrizione resa da uno storico appartenente alla stessa famiglia Ferretti il fortilizio ha una forma quadrata con profonde mura a controscarpa, "recinto da ampla e capace fossa" alimentata attraverso "sotterranei condotti" da una vena tanto abbondante da colmare pure una cisterna scavata nella piazza interna.

Lasciata in piedi l'antica torre di guardia, vengono elevate altre tre torri "di grossissime mura, e di ben considerabil altezza" e tra una torre e l'altra va un "corridore" merlato.

Un'altra torre domina l'ingresso, a cui si accede per un ponte levatoio, che si apre sul cortile interno dove c'è la chiesa, col forno e una gran quantità di fosse capaci di contenere e conservare il grano frutto delle annuali raccolte.

L'intera tenuta dei Ferretti "paludosa e selvata" fin verso la metà del Quattrocento è bonificata e messa a coltura dall'infaticabile opera di gruppi di albanesi stabilitisi in Castel Francesco, così come un pò per tutte le Marche, dopo un esodo dalle località d'origine, protrattosi per parecchi decenni, sotto la spinta delle incursioni turche nella penisola balcanica, e la pesante crisi economica conseguente al continuo stato di guerra.

Al di qua dell'Adriatico, lungo tutta la fascia costiera dalla Romagna alle Puglie, è facile trovare ove insediarsi per lo spopolamento di molti centri seguito alla tremenda "peste nera", la stessa ricordata nelle novelle del Boccaccio, che nel Trecento ha mietuto gran numero di vittime in quasi tutta l'Europa.

Mancando il lavoro dell'uomo la selva presto ha prevalso nelle terre già un tempo dissodate e per la ripresa occorre innanzitutto procedere ai disboscamenti per cui è necessario il lavoro di molte braccia rendendo utile l'apporto degli immigrati albanesi.

Anche in Castel Francesco molto si deve al duro lavoro degli albanesi costretti a vivere nei primi tempi del loro soggiorno in "rozze capanne" e ammessi poi in avanzati anni ad alloggiare nel castello.

A loro sono affidate le attività più umili.

Molti sono i muratori e manovali come Lione Scanna e Tanusio Balasio, entrambi "albanesi", che nel 1584 sono incaricati dal conte Vincenzo Ferretti di restaurare la chiesa di S. Maria della Misericordia, sita poco fuori il paese, luogo di sepoltura degli abitanti di Castel Francesco.

La chiesa della Misericordia è, con l'iconografia degli affreschi che adornano le pareti di fondo e laterali, una delle migliori testimonianze delle decimazioni prodotte dalle pesti trecentesche.

La fede e la devozione dei superstiti hanno inteso ricordare il triste avvenimento rappresentando lo scampato pericolo e la salvezza dovuti all'accogliente abbraccio della Madonna che sotto il suo ampio mantello protegge e difende le genti inermi di fronte al terribile morbo.

La gratitudine degli abitanti di Castel Francesco e dintorni è espressa pure da una confermata devozione a Santi già oggetto di assiduo culto nella zona come S. Pietro e S. Paolo, S. Bernardino, S. Giacomo della Marca, S. Giovanni e S. Sebastiano.

Il complesso ecclesiale è dunque un importante monumento d'arte per le pitture murarie degli interni,attribuibili alla scuola umbro-marchigiana, uniche in tutto l'Anconetano, e nello stesso tempo è un significativo documento di un'epoca storica che va preservato e fatto meglio conoscere.

Il feudo dei Ferretti ha una rapida crescita demografica e già nel Cinquecento Castel Francesco è uno dei più vivaci centri della bassa valle dell'Esino, cosicchè a metà del secolo, secondo lo storico Francesco Ferretti autore nel 1685 della Pietra del Paragone, è abitato da 65 famiglie sistemate in 23 appartamenti all'interno del castello e in altre piccole abitazioni raccolte in un borgo ed in alcune ville di campagna.

In totale si contano quasi 500 abitanti distribuiti in un territorio della superficie di 650 some, più o meno 1300 ettari.

L'intera popolazione vive consumando quanto ricava dalla coltivazione dei campi che con abbondanza producono vino e grano più che sufficiente alla necessità dell'annata.

Tanto infatti è il frumento raccolto che circa 500 some l'anno sono vendute sul mercato di Ancona.

Così pure al mercato della vicina città è destinato il sovrappiù annuo di 50 some di orzo.

I ricavi sono utilizzati per acquistare olio, lino e quant'altro serve alla vita della comunità.

Il bestiame conta 60 bovini, 400 pecore, 110 porci, 35 paia di buoi da lavoro e 30 animali da soma.

La relativa tranquillità che s'instaura per tutto il Cinquecento fa sì che il Castel Francesco continui a svilupparsi e a raggiungere sul finire del Seicento una popolazione di 610 persone raccolte in 121 famiglie.

A testimonianza del florido periodo si ricordano le opere promosse dal capitano Francesco Ferretti consistenti in ampliamenti dell'intera rocca, nella costruzione di un "casino" nel borgo con logge e giardino e di una chiesa dedicata a S. Stefano.

E' poi più o meno nello stesso periodo che i Ferretti completano l'edificazione della villa di Monte Domini, un superbo esempio di edilizia signorile cinquecentesca ad uso di abitazione estiva.

C'è ancora da aggiungere che in relazione allo sviluppo dell'abitato, che nel primo Seicento assume la definitiva denominazione di Castel Ferretti, viene decisa, nel 1629, la fabbrica di una nuova chiesa all'interno del castello, in luogo dell'antica ormai inadeguata ad ospitare i fedeli nel corso delle varie cerimonie liturgiche.

La chiesa, che mantiene il titolo di S. Andrea, è sede di un parroco nominato dagli stessi conti Ferretti.

La canonica di due sole stanze è anch'essa all'interno del castello.

Fra Seicento e Settecento la tranquilla vita paesana, scandita secondo i ritmi naturali, non conosce grandi turbamenti risentendo poco dei problemi assillanti alcuni esponenti della famiglia Ferretti che si trovano coinvolti in due impegnative liti con la comunità di Ancona.

La questione, insorta negli ultimi decenni del '600, riguarda soprattutto la pretesa di Ancona di comprendere anche Castel Ferretti nel numero dei castelli soggetti alla propria giurisdizione e perciò tenuti al pagamento di gabelle e tributi alla Dominante.

Già una prima volta la lite si risolve a favore dei Ferretti i quali possono ampiamente dimostrare i loro diritti feudali sanzionati da parecchie bolle pontificie emanate tra XV e XVI secolo, da ultima quella di Clemente VIII del marzo 1593.

Dopo quasi mezzo secolo la disputa si riaccende nel 1760, ma ancora una volta i Ferretti hanno la meglio ed è a loro confermato ogni diritto sul castello e suo territorio da ritenersi luogo baronale.

Il governo dei Ferretti seguita così a reggere le sorti del paese fino agli anni della prima invasione bonapartista, quando nel triennio 1797-99 i Ferretti son chiamati diverse volte a contribuire alle spese per lo stazionamento dell'esercito d'occupazione.

Non avendo sempre sufficiente denaro a disposizione la famiglia è costretta a porre ipoteche sui beni di Castel Ferretti.

Beni che negli anni della prima restaurazione, ristabilito il sovrano pontefice, i Ferretti riscattano per la maggior parte.

Sono poi i decreti consalviani del 1817 a privare anche i Ferretti, e questa volta definitivamente, di ogni diritto giurisdizionale sulla loro contea.

Dopo quasi cinque secoli ha così termine la signoria dei Ferretti e di lì a qualche decennio si estingue anche il ramo principale dell'illustre famiglia.

 

 

 

Il comune

 

 

E' ancora in gran parte da esplorare l'articolato sistema legislativo che per qualche centinaia d'anni, dal medioevo alla fine dell'ancien régime, ha guidato gli amministratori delle castella del contado anconitano nel regolare la vita pubblica.

Manca finora un'indagine sistematica intorno alla ricca produzione regolamentare raccolta nella nutrita serie degli atti consiliari del Comune di Ancona che, senza grandi lacune, va dagli ultimi decenni del Trecento all'età contemporanea.

Né c'è stata una particolare attenzione per le varie versioni statuarie della città, sia per quanto riguarda i testi manoscritti del 1394, e relative addizioni del 1400 e del 1458, sia per l'edizione a stampa del 1513, curata dal perugino Marco de' Rossi.

Miglior sorte ha avuto presso gli studiosi l'ultima edizione degli Statuti di Ancona del 1566, affidata dagli Anziani della città alla cultura giuridica del concittadino Giovan Battista Ferretti.

Le norme generali dell'amministrazione pubblica contenute negli statuti sono di più facile accesso, ma restano sempre piuttosto oscure se non raffrontate alle consuetudini o alle molteplici diverse interpretazioni applicate al dettato statutario nel civico consesso cittadino.

Si pensi solo ai mutamenti nei rapporti fra città e contado che s'instaurano dopo gli avvenimenti del 1532, quando Ancona è definitivamente incamerata nello Stato della Chiesa.

Da quella data ogni particolare atto del governo locale passa sotto il controllo di un prelato governatore al quale l'autorità statale concede ampi poteri di vigilanza sulla vita comunale, estensibili all'intero territorio sul quale si espande al giurisdizione anconitana.

A partire quindi dal 1532 non è più solo la città ad operare una tutela sui castelli; ad essa si aggiunge una nuova autorità che, pur se non sempre nelle stesse forme, fa pesare la mano e interviene ogniqualvolta vien messa in discussione l'autorità sovrana tanto nel capoluogo che nelle comunità castellane.

Il cumulo legislativo realizzato in oltre due secoli di libera attività degli organismi comunali, trattenuto in vigore nella nuova realtà statale anche se non in tutto conforme alle normative pontificie, ha dato adito a conflitti di varia natura tra gli stessi organi dell'amministrazione cittadina, e in questa sede è nostra intenzione cogliere alcuni momenti di più aspro contenzioso tra la Dominante e uno dei castelli del contado, Falconara per l'appunto, come indice di un progressivo, lento distacco del Falconarese dalla protezione anconitana verso un più serrato concetto di autonomia.

Quanto occorresse intervenire per far chiaro nei rapporti tra il centro e la periferia nell'ambito comunale anconitano risalta dalla decisione presa dal governatore Bussi nel 1765 di affidare al tipografo di Ancona Pietro Ferri la stampa di un opuscolo di undici pagine contenente Istruzione ed ordini da osservarsi dai podestà che saranno destinati per li Castelli soggetti al Governo d'Ancona.

Nel libello viene ripresa, commentata e aggiornata la rubrica 22, De Officio Potestatum, della collatio prima, degli statuti del 1566 e nelle intenzioni del Bussi il lavoro è destinato particolarmente ai podestà di nuova nomina.

Essi ne ricevono una copia dalle mani dei segretari delle comunità, all'atto della presa di possesso dell'ufficio, perchè si preparino "ad essere più attenti all'adempimento del proprio debito, e per rendere più inscusabili le loro mancanze".

Il Bussi elenca, in quindici punti, i doveri propri dei podestà delle castella e delimita il perimetro entro cui può esser esercitato il mandato podestarile conferito dal governatore pro tempore, in nome e per conto del sovrano pontefice, accolta la designazione deliberata dal consiglio anzianale di Ancona.

In particolar modo il podestà dei castelli è tenuto a vigilare sull'attività dell'ufficio di segreteria e come primi compiti ha la verifica degli atti civili, e il controllo delle raccolte dei bandi, degli editti e delle lettere di ufficio, dai quali ricava una esatta conoscenza degli atti compiuti dai predecessori, utile a "ben regolar(si) nel suo impiego".

E' assolutamente vietato al podestà servirsi del segretario comunale ordinandogli di svolgere funzioni di attuario, ossia di notaio della comunità.

L'esercizio del notariato a livelo locale spetta, secondo alcune norme fissate negli antichi statuti, agli aventi diritto purchè nati o residenti in altro Comune.

Le istruzioni del Bussi toccano anche alcuni aspetti della politica tributaria degli enti locali.

Ad esempio si chiarisce che le tasse applicate sugli atti relativi a cause civili, trattate dal podestà nel tribunale locale, il cui importo è elencato in una tabella inserita nelle ultime pagine del libretto del Bussi, debbono essere le stesse che si esigono presso il Tribunale della Dogana di Ancona.

Il governatore ricorda quindi le responsabilità del podestà riguardo alla vigilanza sull'esercizio del commercio in sede locale.

Dà disposizioni sulle modalità di convocazione dei consigli comunali e richiama le disposizioni inerenti all'obbligo della richiesta di specfifiche autorizzazioni per le spese di carattere straordinario.

Il governatore delega anche al podestà la facoltà di poter amministrare la giustizia per i reati risolvibili con una oblazione di meno di uno scudo.

Il Bussi indica pure i provvedimenti punitivi per gli inadempienti all'Istruzione.

Le pene possono consistere nella sospensione o privazione dell'ufficio, e in condanne più pesanti quando sia stata riscontrata una violazione di una certa gravità.

Comunque ogni reato commesso dai podestà è trascritto in un apposito registro, depositato presso gli uffici del governatorato, del quale si può prendere visione ogni anno nel momento delle "mutazioni delle podestarie".

Non c'è altro in quella che potremmo definire una guida alla preparazione di uomini destinati al buon governo della cosa pubblica.

Il Bussi ha volutamente concentrato l'intera normativa in pochi articoli, chiari e ben formulati, intellegibili anche da persone con una modesta preparazione culturale, che poi sono la maggior parte tra coloro che s'avviano a seguire la carriera di podestà nei piccoli centri dei contadi urbani, escluse le rare occasioni in cui la podestaria è in mano a persone dall'ottima preparazione giuridico-amministrativa.

L'Istruzione del Bussi, pur volendo apparire un semplice tentativo di aggiornamento di un articolo dello statuto anconitano, appare subito come un'innovazione dalla portata storica rilevante.

La sua pubblicazione significa che l'esercizio del potere locale nelle comunità del contado è vigilato, controllato e disciplinato dal governatore, che va sempre più aumentando in forza e in prestigio, a tutto vantaggio dell'autorità dello Stato centrale, indebolendo senza dubbio e rendendo sempre più vacuo il potere assoggettante del Comune capoluogo.

Il secondo Settecento è il periodo in cui si avvia una modernizzazione del sistema municipale, segno di un tardivo ma avviato ingresso dello Stato pontificio tra la schiera delle nazioni europee dove il perfezionamento della macchina burocratica conta una consolidata tradizione.

Le volontà del governatore Bussi, rimasto per un solo anno ad Ancona, non cadono nel vuoto.

Esse costituiscono a lungo un metro di misura per circoscrivere gli ambiti entro cui può agire il podestà, almeno finchè tiene la formula del governo locale affidato alla tutela podestarile.

Ma, perchè qualcosa muti, occorrerà attendere la sferzante lezione amministrativa costruita su modelli sperimentati in Francia e introdotti quasi a forza, a fine Settecento, da tardi epigoni della rivoluzione dell'Ottantanove giunti in Italia al seguito del generale Bonaparte.

Per restare ancora con il Bussi va aggiunto che il suo "libretto" continua a circolare nelle comunità locali e a volte preso come strumento di difesa contro malcelati tentativi di tornare a superate maniere di sentire le funzioni amministrative a livello municipale.

Si verifica anche il caso che un segretario comunale, tal Pietro Biloni, presente a Falconara dagli anni Settanta del XVIII secolo al primo decennio del XIX, intenda mettere in chiaro le distinzioni che sussistono nella vita comunale tra Ancona e Falconara, riducendo ampiamente il concetto di mera sottomissione e dipendenza di un centro dall'altro.

Il Biloni in una testimonianza giurata, destinata alle autorità della S. Congregazione del Buon Governo, e stesa il 22 giugno del 1779, riassume la sua decennale esperienza a capo della segreteria falconarese.

Ebbene egli si sforza di far comprendere che in quegli anni non c'è stata mai una assoluta "dipendenza" dalla comunità di Ancona, e porta ad esempio gli affitti dei "proventi pubblici", cioè dei tributi comunali, interessanti il forno del pan venale, il macello, il dazio della foglietta e il raccolto del grano e dei brastimi (legumi), i quali sono stati sempre appaltati dalla comunità di Falconara.

Cos' pure per la scelta e l'annuale conferma dei salariati pubblici e per l'elezione dei pubblici ufficiali, tra i quali figura l'esattore o "depositario" dei "pubblici proventi", sono avvenute libere votazioni del consiglio comunale di Falconara.

Anche i registri sui quali il "depositario" annota le somme percepite dagli appaltatori delle gabelle sono firmati dai priori in carica e sono vidimati con il sigillo priorale, lo stesso che porta lo stemma della comunità, col falcone che spicca il volo da tre piccoli colli.

Anno dopo anno, alla fine dell'esercizio finanziario, la revisione dei conti è affidata al dirigente la ragioneria del Comune di Ancona, assistito nell'operazione dai priori di Falconara e dal segretario comunale, con l'esclusione di qualsiasi altro rappresentante di Ancona, voglia che esso sia anche un consigliere del Comune capoluogo.

Ultimato il controllo contabile si predispone la tabella delle spese ordinarie e straordinarie, la quale è poi controfirmata dai priori falconaresi, e vi viene apposto il sigillo della comunità.

Su questo punto dell'autonoma gestione delle entrate e delle spese il Biloni torna a mettere l'accento più volte tanto da ricordare che sia per i piccoli, come per i grandi investimenti, occorre la deliberazione approvata dai priori e dal consiglio comunitativo "senza veruna intelligenza del Pubblico di Ancona", overossia non occorre nessuna particolare autorizzazione da parte del governo anconitano.

Nel solo caso di spese d'ingente portata è necessario sentire il Buongoverno e attenderne l'approvazione.

L'intera finanza comunale è trascritta in un registro titolato Conti della Comunità, anch'esso sottoposto ad annuali revisioni da persone incaricate dal governatore di Ancona pro tempore.

E' un adempimento al quale la comunità di Falconara si è puntualmente sottoposta a partire dal 31 gennaio 1687, stando al più antico libro dei conti che il Biloni ha potuto rintracciare nel pubblico archivio.

E' in quell'anno che, sempre secondo il Biloni, il governatore Grimaldi, ha ordinato alle comunità sottoposte alla sua giurisdizione la tenuta di un tale registro.

Falconara si adegua sempre con prontezza e con la massima puntualità ogni anno porta alla firma e al controllo delle persone incaricate i registri contabili.

Sporadicamente l'incaricato della revisione è scelto tra gli impiegati della ragioneria del Comune di Ancona.

Spesse volte o si tratta di impiegati di altri Comuni vicini o di uomini del governatore.

La testimonianza di Pietro Biloni si sofferma soprattutto sugli aspetti fiscali dell'autonomia falconarese; non affronta affatto altri momenti del funzionamento dell'apparato amministrativo locale, nè spiega come avvenga la successione all'ufficio priorale, nè in qual modo si regoli la vita del consiglio comunitativo.

Per questi altri aspetti qualche lume viene dalle poche carte consiliari giunte fino a noi a testimonianza dell'operosità del consiglio comunitativo del XVIII secolo.

L'unico volume di atti consiliari superstite, dopo la distruzione dell'antico archivio falconarese operata all'incirca mezzo secolo fa, raccoglie le deliberazioni adottate dal civico consesso tra il 1748 e il 1768, e documenta una gestione della cosa pubblica costantemente preoccupata di non far troppo pesare sui governati le pur dure vicende alle quali la comunità falconarese, alla stregua di molte altre nell'anconitano, è sottoposta in quel ventennio del Settecento.

Sono infatti gli anni in cui si sopportano i residui strascichi delle guerre per gli equilibri italiani ed europei, con i conseguenti gravosi indebitamenti del pubblico erario per il sostentamento delle truppe di passaggio e d'occupazione.

Nè mancano le calamità naturali che investono il territorio con andamenti stagionali sfavorevoli; basta, per tutte, rammentare le ripetute carestie degli anni 1765-67.

E vanno ancora aggiunti altri momenti difficili per crisi sismiche o per fatti endemici che sfibrano le popolazioni locali.

L'intervento di Pietro Biloni avviene in un momento per così dire cruciale della storia comunale di Falconara.

Si è appena detto che la memoria giurata del Biloni è depositata nel giugno del 1779.

In quell'anno si apre infatti una vertenza con Ancona, alla quale partecipano più o meno direttamente un pò tutte le castella del contado, e che scaturisce da una ripartizione delle spese necessarie al mantenimento della strada consolare Flaminia, ritenuta non del tutto equa.

La via Flaminia è la principale arteria che mette in comunicazione Ancona con Roma e con il settentrione d'Italia.

E' tra i tracciati meglio curati di tutta le rete stradale dello Stato pontificio.

Su di essa corre anche il servizio postale ed essendo di interesse nazionale è soggetta nel tempo ad una legislazione che muta secondo il mutare delle situazioni politiche e delle congiunture economiche dello Stato.

Potrebbe sembrar strano, secondo le più attuali accezioni del termine statale, ma la Flaminia, che pure è, come detto, un asse viario rilevante nel sistema delle comunicazioni dello Stato romano, dipende per le opere di manutenzione ordinaria dai Comuni che essa attraversa dal Lazio alla Romagna.

Nel caso di Ancona per almeno due secoli si discute sull'opportunità che alle spese per i lavori stradali sulla Flaminia contribuiscano, oltre al capoluogo, tutte le comunità castellane ovvero solo quelle sul cui territorio corre l'antica strada romana, cioè a dire Ancona, Camerano, Varano e Falconara.

Il primo tentativo di quietare le castella vien compiuto negli anni Settanta del Cinquecento dal pontefice Gregorio XIII e le disposizioni da lui emanate vengono rispettate fin verso la metà del XVII secolo, quando mons. Aragona, governatore della Marca e Commissario generale sopra le strade, stabilisce che la strada romana, come più comunemente vien chiamata la Flaminia, sia "fatta, stabilita e mantenuta colli suoi ponti perpetuamente da tutte le Castella della Città di Ancona, e Contadini di uso Distretto".

Ciò significa che ciascuna comunità ha un tratto di strada assegnato, distintamente indicato da pietre miliari con su inciso lo stemma delle comunità, e sul quale ogni anno, nella stagione migliore, le comunità inviano validi operai, con carri, animali da traino e da trasporto, ed attrezzi vari, per eseguire i lavori di manutenzione.

All'antica disposizione si ribella nel 1744 la comunità di Monte S. Vito, uno dei castelli non attraversati dalla via Flaminia, che ottiene dalla Congregazione del Buon Governo l'esenzione dal partecipare tanto alle contribuzioni, quanto ai lavori per la transitabilità della Flaminia.

E' un provvedimento impolitico capace solo di dar l'avvio ad una sequela di richieste da parte di molte altre comunità del contado, e importanti decisioni in merito vengono prese nel decennio 1752-1762.

Non c'è disposizione che non confermi il vecchio provvedimento e che non prescriva alle comunità del contado di partecipare alle spese per la Flaminia " a misura delle forze di ciascuna".

S'arriva così al 1779 quando Falconara decide di riaprire la diatriba e di intentare causa contro Ancona, al fine di ottenere una revisione delle norme che disciplinano la materia.

Falconara, per bocca dell'avvocato Giovanni Maria Baldi, chiede alla Congregazione del Buon Governo che siano rivisti innanzitutto i termini dei tronchi stradali assegnati alle comunità del contado.

I Falconaresi contestano che il tratto di loro pertinenza non resti interamente compreso nel loro territorio, che va dalle Torrette al ponte sull'Esino, e si dicono non più disposti a reperire il denaro necessario ad assicurare una continua transitabilità ed agibilità della Flaminia.

A sostegno della richiesta vengono adottate motivazioni che poggiano tutte sul fatto che negli ultimi anni la comunità di Falconara ha sostenuto ingenti spese per i lavori nel percorso compreso tra la Palombella e le Torrette, il quale, secondo il vecchio schema di riparto, è una porzione del tracciato affidato alla comunità di Falconara.

Lungo quelle poche miglia di strada, considerata oltre i confini di Falconara, visto che si sostiene a forza di prove testimoniali che il territorio della comunità deve coincidere con quello della parrocchia, si è messa in moto una vecchia lama, producendo danni ingenti.

Per fermare il movimento franoso "con una gravissima spesa" la carreggiata è stata spostata "al di sopra" della sede precedente.

Si tratta nè più nè meno dell'area in frana, più nota ai giorni nostri sotto il nome di frana Barducci, in una zona geologicamente instabile e che anche di recente ha ripreso a muoversi sconvolgendo il percorso della statale, della limitrofa ferrovia, e scalzando dalle fondamenta il gruppo di case del cosiddetto Borghetto della Palombella.

Nonostante che Falconara abbia richiesto una conveniente partecipazione di Ancona e degli altri castelli all'aumentato onere, la risposta ottenuta non solo è stato un secco diniego ma da parte delle altre comunità si è recriminato contro Falconara, la quale a parer loro ha potuto risparmiare parecchio negli anni precedenti, essendo il suo tratto di strada tutto in pianura e prossimo alla riva del mare.

Una prima sentenza vien pronunciata da mons. Porta, segretario del Buongoverno, il 17 luglio 1780, e in essa vengono accettate tutte le osservazioni proposte dai Falconaresi.

Quasi subito Ancona interpone appello e attraverso il proprio legale, l'avvocato Antonio Bassi, fa giungere al Buongoverno le sue controdeduzioni.

La questione viene rimessa al competente Tribunale del Buongoverno e affidata al ponente mons. Pignatelli.

Il giudizio pronunciato il 15 gennaio 1782 è a favore di Falconara.

Ancona non demorde e presenta un ulteriore ricorso illustrato di fronte ai giudici del Buongoverno dal ponente mons. Rusconi.

Egli, nonostante una accalorata difesa, non riesce ad ottenere una revisione della risoluzione, e quindi ha pieno valore il dispositivo emesso dal Porta due anni prima.

A documentare l'intera controversia restano un ricco fascicolo nell'archivio anconitano e le edizioni a stampa, per i torchi del romano Lazzarini, datate 1781, 1782 e 1783, dei ricorsi e delle arringhe dei legali e dei ponenti, presentate nell'iter processuale della Anconitana Viae Flaminiae alla S. Congregazione del Buongoverno.

Gli atti giudiziari a stampa sono di notevole valore sul piano storico per la ricchezza dei contenuti nei sommari, nei quali sono stati raccolti tutti quei documenti ritenuti essenziali a sostegno delle pratiche legali.

Tra i tanti documenti citati a ripetizione nelle tre edizioni dell'Anconitana forse quello che desta maggior interesse è una trascrizione del lodo arbitrale pronunciato due secoli avanti, il 28 marzo 1582, dai giudici chierici della Camera Apostolica, il vescovo Girolamo Melchiori, ordinario di Macerata, e il vescovo Antonio Maria Salvati.

A giudizio dei due chierici camerali le comunità castellane hanno l'obbligo di pagare le rate dei pesi camerali, ossia dei tributi spettanti all'erario statale, in mano al depositario di Ancona.

I castelli devono poi contribuire con la città alle spese occorrenti per le opere pubbliche, e "segnatamente per il risarcimento delle strade".

Le conclusioni della vertenza, aperta invero da troppi anni, sono approvate dal civico consesso anconitano il 28 maggio 1582 e di seguito tutte le università degli uomini dei castelli, ad una ad una, sottoscrivono il lodo rinnovando al contempo il giuramento di fedeltà ad Ancona.

A Falconara il 4 luglio del 1582, nella solita sala del castello ove si tengono le periodiche sedute del "pubblico e generale parlamento" falconarese, si riunisce il consiglio che esamina e discute il documento, approvato poi all'unanimità.

Sono eletti due procuratori nelle persone di Pellegrino Pellegrini e Domenico di Giacomo, incaricati di recarsi ad Ancona per prestare formale giuramento.

L'atto di sottomissione serve pure a riconfermare la fedeltà dichiarata da Falconara rispetto ad Ancona il 22 aprile 1540, quando i sindici Pietro Domenico Bartolucci e Antonio Carloni, a nome di tutti i Falconaresi da loro rappresentati, per precisa delega del parlamento locale, pronunciano la formula secondo la quale d'allora in poi Falconara si dimostrerà "figlia fedelissima e suddita della Magnifica Comunità di Ancona, e della S. Sede Apostolica" nonchè dei pontefici destinati a salire sulla cattedra di S. Pietro, come lo è stata fino all'anno 1532.

Nel 1540 è avvenuta una sorta di restaurazione dell'antico dominio anconetano sulle castella.

Quest'ultime sono tornate ad assoggettarsi alla Dominante, ridando vita anche agli antichi vincoli feudali e di vassallaggio, i quali vengono rinsaldati nel corso di pubbliche manifestazioni durante le quali si consegna, nelle mani degli Anziani del Comune, un simbolico omaggio rappresentante le chiavi del castello o il pallio fiorato nell'annuale ricorrenza della festa patronale di S. Ciriaco.

Con l'atto di sottomissione del 1540 Falconara ottiene anche qualche riconoscimento, quale la conferma della proprietà di molte terre nel Falconarese, e la possibilità di indire fiere per le merci e il bestiame, anche in occasioni straordinarie.

Avviene così che per i festeggiamenti del giubileo del 1561, indetto per solennizzare la riapertura del Concilio a Trento, nella chiesa di S. Maria del piano di Fiumegino, si indice una fiera della durata di quindici giorni, a partire dalla ricorrenza di S. Lorenzo (10 agosto).

La fiera gode di tutti i privilegi, delle immunità e delle esenzioni previste in simili circostanze e la comunità di Falconara vuole che i guadagni realizzati siano impiegati nella "augumentazione" di quella chiesa, da poco tempo ristrutturata con lavori iniziati nel 1546, al fine pure di favorirne la "frequentazione" e ridar vigore al culto verso la sacra immagine della Vergine della Marina, che conta una lunga tradizione tra i fedeli del luogo.

Ma quando all'inizio degli anni Ottanta del XVI secolo l'impianto del governo anconitano torna a mostrare qualche preoccupante crepa e s'incrinano i rapporti col contado ciò dimostra come sia in atto un mutamento di rotta nella politica dello Stato e come si stia entrando in una nuova fase di ridistribuzione dei poteri all'interno dello Stato pontificio.

Motivo per cui il litigio, insorto come sempre in materia fiscale nel quale sono coinvolte tutte le comunità delle castella trova una soluzione solo attraverso un diretto intervento dei rappresentanti della Camera Apostolica, quale supremo organismo di controllo finanziario della Chiesa.

Intorno al 1580 la questione principale si sviluppa sul criterio da scegliere per ripartire i carichi tributari e sulle competenze per la gestione degli incassi dei tributi, secondo la consueta distinzione tra camerali e comunitativi.

L'accettazione del lodo del 1582, quasi una imposizione della Camera Apostolica, rinsalda, come detto, il vincolo di soggezione esistente tra i castelli del contado e la città di Ancona.

Ma è pure il motivo per l'avvio o il riacutizzarsi di altre controversie, originate sempre dalla confusione regnante nella legislazione finanziaria dello Stato.

E' il caso dell'annosa vertenza, che si trascina dal 1555, tra gli eredi del capitano Roberto Santoni di Jesi, proprietario di vaste estensioni di terra nel Falconarese, e la comunità locale che si vede privata di una notevole somma di tributi per una pretesa esenzione dei Santoni.

E va aggiunto che a fianco della famiglia Santoni, altri gruppi familiari, addirittura non residenti, come quello dei Duchi di Urbino o dei Cesarini di Civitanova, possidenti di terre nel Falconarese, non pagano gabelle in quanto appartenenti al ceto nobiliare, privilegiato, e quindi favorito in alcune esenzioni dal pagamento delle imposte indirette.

Passano pochi mesi dalla firma dell'intesa del marzo 1582 e nel consiglio comunale di Ancona viene riproposta all'ordine del giorno la nomina di procuratori, incaricati di affiancare i rappresentanti di Falconara, nel tentativo di raggiungere un onorevole compromesso con gli eredi Santoni, e in primo luogo con il marito di Giovanna Santoni, Guid'Ascanio del Monte.

Egli attraverso il matrimonio con la ricca ereditiera ha dato il via all'espansione della sua famiglia nell'Anconitano, forte dei diritti feudali già da tempo riconosciuti sulla terra di Mombaroccio nel Pesarese, e in quanto appartenente alla potente casata dei del Monte, marchesi di S. Maria, tra Umbria e Toscana.

Nella deliberazione del consiglio di Ancona si dà tempo un mese per trovare un accomodamento.

Un tempo che presto si rivelerà insufficiente anche perchè occorrerà adire le sedi giudiziarie romane.

Solo nell'estate del 1584 si giunge ad un compromesso tra i del Monte e i rappresentanti del Comune di Ancona, nelle persone di Girolamo Benincasa, di Pietro Leoni, di Gabriele Ferrantini, di Nicolò Trionfi, nonchè quelli di Falconara Girolamo di Giacomo, detto Girone, Rocco di Simone, Giovanni Paolo Angelucci.

Il 22 dicembre 1584 le parti si ritrovano nell'abitazione anconitana dei marchesi del Monte, in parrocchia di S. Pietro, e alla presenza del notaio Ascanio Stracca viene steso l'atto col quale i del Monte si impegnano a pagare la somma di cento scudi, al depositario di Ancona, per le tasse degli anni decorsi e altri cento scudi allo stesso depositario nel corso del successivo quadriennio, a rate di venticinque scudi l'anno, sempre al fine di appianare i vecchi debiti sia nei confronti della tesoreria di Ancona, che di quella di Falconara.

I del Monte poi acconsentono a pagare l'imposta sul terratico per le proprietà inscritte nel catasto di Falconara e a contribuire al sussidio triennale sui cavalli morti, applicata per lo più sui capi di bestiame posseduti.

Ai del Monte viene riconosciuta l'esenzione, senza darne chiara ragione, dalla tassa sulla carne porcina.

In tal modo Falconara non solo può recuperare una quota significativa dei tributi necessari a raggiungere la somma richiesta dallo Stato come colletta camerale, ma ottiene il ben più ambito obiettivo di limitare l'affermazione della famiglia dei del Monte in Falconara e dintorni.

I del Monte già possiedono oltre alle terre, molti appartamenti nel castello e case nel borgo, e il timore dei Falconaresi è quello che la ricca famiglia, arrivata a Falconara da non più di quattro decenni, punti in quegli ultimi scorci del Cinquecento a divenire la più forte nel territorio dando vita ad una signoria, alla stregua di quanto avvenuto diversi decenni prima nella non lontana Mombaroccio.

Ciò avrebbe dato luogo ad una difficile convivenza e avrebbe certamente leso le poche autonomie comunali godute dai Falconaresi.

S'avverte in questa vicenda una prima forte affermazione della volontà dei ceti medi produttivi per tenere il controllo di alcuni gangli della vita politica locale.

E in Falconara, un piccolo centro dell'Adriatico con un basso animato, sfuggito alle attenzioni delle famiglie titolate, la nascente borghesia non è disposta all'apertura di alcun tipo di varco attraverso il quale un gruppo familiare sopravanzi gli altri.

Il consiglio degli uomini di Falconara prosegue ed attua, pur nei limiti della sua modestia, le linee della politica del pontificato di Paolo IV, sostenitore della sovranità limitata delle comunità e ben disposto ad aiutare i grandi mercanti nell'ottenere locazioni di feudi papali a scapito delle più antiche famiglie di sangue.

Il caso dei nobili Orsini, nella provincia pontificia del Patrimonio, ridotti ad affittare parte del feudo ai ricchi mercanti fiorentini dei Cavlcanti, è un esempio sintomatico di una realtà nuova che pian piano investe l'intera area dei domini della S. Sede: una politica di rinnovamento delle basi sociali dello Stato proseguita dai successori Pio IV e PIo V, fino a Gregorio XIII.

Di quest'ultimo pontefice si ricordano, tra i tanti provvedimenti, la riforma della Camera Apostolica e una generale revisione della legislazione finanziaria.

Non a caso quindi il lodo del 1582 dà buoni risultati.

Esso rappresenta una minima attuazione di un programma ben più vasto di revisione istituzionale annunciato e condotto avanti da Gregorio XIII.

Non mancano però altre occasioni in cui la solidarietà e il buon vivere vengono meno tra Ancona e le comunità delle castella.

E' sempre la distribuzione dei carichi fiscali a suscitare risentimenti e contrasti e ad aprire lunghe vertenze giudiziarie.

Ancora nel XVII secolo, o meglio a precisare nel 1614, è necessario un pronunciamento del governatore di Ancona, il milanese Onorato Visconti, per costringere il Comune capoluogo e le università degli uomini dei castelli del contado a firmare un atto di concordia nel quale è definita la controversa questione, aperta nel 1567, sulla tassazione dei beni posseduti dai cittadini nel contado e dai contadisti in città.

Nel settembre del 1614 il consiglio comunale di Ancona vota la ratifica e approva l'instrumento di transazione e concordia redatto dal notaio Cicconi, con l'assistenza del notaio Sbordiga, il 7 agosto antecedente, alla presenza dei deputati di Ancona Francesco Cresci, Antonio Giachelli e Girolamo Hiparchi, e i deputati dell'Università di tutto il contado Girolamo Simonelli di Monte S. Vito, Tommaso Borresi di Offagna, Domenico De Vecchi di Camerano e Domenico Biondi di Polverigi.

Nell'atto di conciliazione si prevede che le tasse sui beni stabili e sui terreni sono fissate autonomamente dalla città e dal contado sulle proprietà accatastate, indipendentemente dalla residenza dei proprietari.

Si permette così ai castelli di incamerare direttamente i tributi per il terratico, dovuti dai cittadini anconetani per i beni posseduti nelle pertinenze dei castelli.

Non è un provvedimento da poco se si considera che la maggior parte dei terreni circostanti i castelli sono posseduti dai cittadini di Ancona.

Mentre invece sono piuttosto rari i casi di possedimenti di contadisti entro il perimetro urbano.

Ad ulteriore incremento delle entrate dei castelli si stabilisce pure di autorizzare le comunità all'applicazione di proprie gabelle sul bestiame, comprese le affide e le stime, limitatamente però ai capi posseduti dalla parte colonica.

Inoltre è previsto che le stesse comunità possano aumentare alcune gabelle onde rinvenire i mezzi necessari al pagamento delle retribuzioni e al rifornimento delle guardie di spiaggia, allorquando si rivelerà necessaria la costituzione di un tal corpo di vigilanza costiera.

Il che può succedere più facilmente in occasione della propagazione di epidemie, al fine di creare cordoni sanitari, e ogniqualvolta si diffonde la notizia di probabili attacchi dal mare di bande piratesche, più spesso identificabili sulla costa anconitana con gruppi animosi di uscocchi, alla ricerca di facili prede, e provenienti dalla sponda opposta dell'Adriatico, ove trovano facile e sicuro riparo nella frastagliata costa dalmata.

Non si vorrebbe però tirare troppo il discorso in una lunga disamina della sovrabbondante documentazione relativa alle dispute di natura finanziaria.

S'è visto come spesso accadeva che una causa si accavallasse all'altra, e che alcune disposizioni emesse per quietare una lite costituissero lo spunto per l'avvio di nuovi procedimenti di fronte alle più svariate sedi della giustizia amministrativa dello Stato pontificio.

Lo "spirito riformatore" del Settecento, che investe lo Stato ecclesiastico almeno a partire dal pontificato di Clemente XII e s'avverte di più durante quello di Benedetto XIV, colto appieno nei preziosi studi di Dal Pane, si può dire faccia emergere un nutrito stuolo di cultori di una nascente scienza della pubblica amministrazione.

Tra le maggiori opere edite nel primo Settecento, che si potrebbero prendere come veri e propri tentativi di prima codificazione di norme per la gestione della cosa pubblica, in senso moderno, vanno ricordati i ponderosi volumi del De Bono Regimine, stampati sotto gli auspici di Papa Clemente XII e del card. Rivera, in gran parte curati dal giurista romano Pier Andrea Vecchi.

Un testo che vien messo a disposizione di ogni cancelleria pubblica, e la presenza nella biblioteca comunale di Falconara di copie del secondo e terzo tomo, i più utili nel disbrigo degli affari relativi alla gestione di un Comune, è la testimonianza viva di un frequente ricorso alla loro consultazione da parte dei segretari comunali che si succedono a Falconara tra Settecento e Ottocento.

Non è detto che l'acquisto delle copie per la cancelleria falconarese non sia stata un'iniziativa del segretario Biloni, che già si è visto particolarmente attento a seguire le disposizioni per un corretto indirizzo della vita comunale, tanto da trattenerlo a Falconara per oltre quattro decenni.

Anche la citata monografia del governatore Bussi degli anni Sessanta dello stesso secolo può passare come un'appendice o meglio una glossa all'opera del Vecchi, con l'intenzione evidente da parte dell'autore di far comprendere meglio ai podestà le disposizioni emanate dal governo centrale, operando un raccordo con la normativa locale.

Da qui i ripetuti richiami di qualche rubrica dello Statuto anconitano, il testo di principale riferimento nell'amministrazione dei Comuni prossimi ad Ancona fin quasi all'Unità d'Italia.

La possibilità di avere a disposizione un segretario comunale attento ai doveri del suo ufficio permette a Falconara di godere, nella seconda metà del Settecento, di una stabilità del governo locale, facilitata anche dalla pressocchè continua presenza, sicuramente nel periodo 1747-1760, del podestà Saverio Rossi, segno evidente di un'incontrastata stima dei Falconaresi nell'equilibrato operare del podestà.

Con lui non muta granchè neppure la composizione delle compagini comunali che si susseguono e aiutano il podestà nel disbrigo degli affari pubblici.

Anno dopo anno sono i membri delle stesse famiglie dei Gratti, dei Gerundini, dei Marini, dei Pauri, dei Pighetti, degli Scaradozzi a passarsi di mano le maggiori cariche all'interno del Comune.

Essi garantiscono una solidità del governo locale e fanno ipotizzare la formazione di un'embrionale oligarchia borghese, adattata al luogo, che ha pure una sua continuità in quanto le stesse famiglie si ritrovano nel secolo successivo e continuano a presenziare il Comune fino ai primi decenni del Novecento.

La stabilità politica dà frutti anche nella gestione economica e se si osservano le tabelle comunitative si nota come il pareggio tra entrate e spese sia quasi una costante alla fine di ogni anno finanziario.

Ciò permette pure lo sviluppo, che seppur condotto a piccole tappe, porta ad una trasformazione del tessuto urbano falconarese, con una crescita degli abitanti e un maggior impiego della manodopera nei servizi presso ditte e famiglie della vicina Ancona, in un aumento delle iniziative artigianali ed infine in un più razionale sfruttamento delle campagne con un rinnovamento delle colture e una generale revisione del patto mezzadrile, portato a condizioni un pò più favorevoli per l'agricoltore.

L'indice più apprezzabile della crescita di Falconara sul finire del Settecento è fornito dall'aumento della popolazione passata celermente dai 1.500 abitanti circa dei primi anni Settanta ai quasi 2.000 della fine del secolo.

Quale ulteriore prova di una fortunata stagione e dell'incremento avuto dalla vita locale nell'ultimo decennio del XVIII secolo si può far riferimento alla deliberazione del 21 luglio 1794 con il quale il civico consesso falconarese decide la costruzione di una nuova sede per gli uffici comunali.

Viene incaricato della progettazione dell'edificio l'architetto Pietro Zara, il quale è in grado, nel giro di un breve lasso di tempo, di far pervenire ai consiglieri il disegno e la stima dei lavori necessari per innalzare un palazzetto suddiviso in un piano terra, due altri piani con copertura a solaio, un campanile per la campana pubblica, con una spesa prevista di 384,87 scudi.

A parere dei priori Antonio Pauri, Domenico Belardinelli e Giovan Battista Ricciotti, urge la costruzione di una nuova residenza comunale per poter disporre di un'adeguata abitazione per il podestà, privato della solita casa affittata dalla famiglia Fatati, al canone di 8 scudi l'anno pagato dalla comunità.

Al versamento della pigione di 8 scudi contribuiscono la comunità di Falconara per 4 scudi e quelle di Camerata e Paterno, per 2 scudi ciascuna, in quanto il podestà residente a Falconara estende la sua giurisdizione anche sulle due comunità vicine.

L'urgenza di trovare un'abitazione per il podestà deriva dall'improvvisa decisione della famiglia Fatati di cedere la proprietà della casa a don Angelo Paladini, a sua volta pressato dalla necessità di poter godere della nuova abitazione.

Nella deliberazione consiliare si stabilisce pure di cedere a terzi la vecchia sede comunale, posta in un sito nascosto del paese, fornita di una scala d'accesso all'unica stanza utilizzata per le riunioni del consiglio.

L'edificio piuttosto mal ridotto e la scala dell'ingresso, sistemata allo scoperto, negli ultimi tempi, a causa di dissesti vari, è divenuta insicura tanto che lo stesso pievano Frampoli, in un giorno in cui ha deciso di recarsi ad una seduta del consiglio, allargata ai deputati ecclesiastici, era caduto procurandosi fastidiose contusioni.

Dalla vendita, per stare ad una perizia del mastro muratore Giovanni Severini di Montemarciano, è possibile in quegli anni ricavare la somma di 256,71 scudi.

Se a tale cifra si uniscono gli 8 scudi pagati per il nolo dell'abitazione per il podestà, ancora altri 8 scudi per la pigione di una casa di proprietà della Pieve ad uso di abitazione del Commissario e dei birri, e altri 6 scudi pagati per due stanze prese in affitto da Domenico Biloni, per il magazzino ove ammassare i generi alimentari raccolti dalla pubblica annona, si può radunare il denaro sufficiente a garantire il pagamento degli interessi per il prestito da sottoscrivere onde disporre della somma necessaria per innalzare la nuova sede.

L'architetto Zara ha infatti previsto di ricavare nell'edificio, oltre all'abitazione per il podestà, una capiente sala per le riunioni del consiglio, l'ufficio di segreteria, l'abitazione per il Commissario, un magazzino per l'Annona, un altro per i legnami, una camera per i birri, un camerino per i carcerati e una cantina.

La risoluzione approvata all'unanimità degli undici consiglieri presenti è immediatamente inviata al Buongoverno per la nececssaria autorizzazione.

Appena in possesso del permesso dell'ufficio centrale di controllo sugli atti amministrativi, si dà avvio alla costruzione e il 5 marzo 1795, in una ulteriore tornata del consiglio, si delibera di elevare l'edificio con l'aggiunta di un altro piano, da destinare all'abitazione del medico condotto.

Non ci sarebbe quindi più bisogno di continuare a pagare il canone di 6 scudi l'anno versato dalla comunità per assicurare un tetto al medico.

L'elevazione del terzo piano alza il preventivo di spesa fino ad oltre i mille scudi, e la comunità è certa di rinvenire i mezzi necessari per far fronte agli impegni.

Del resto c'è sempre da percorrere la solita via del prestito garantito dalle entrate comunitative.

Ecco la ragione per cui le tabelle della comunità degli ultimi anni del Settecento non chiudono più a pareggio e per diverse annualità si sopporta il carico degli interessi pagati sui mutui contratti per innalzare la nuova residenza, in quella piazza centrale dell'antico borgo, a fianco delle mura esterne del castello, tuttora visibile.

La facciata sulla piazza è adornata, nei primi anni dell'Ottocento, di una macchina oraria, che ha bisogno però d'essere sostituita nel 1827 per la sua vetustà.

Un nuovo orologio viene commissionato ad Antonio Palazzi di Montesicuro, il quale nel progetto presentato al Comune fornisce una dettagliata descizione del meccanismo funzionante per mezzo di bilancieri e congegni di nuova invenzione, con un quadrante in pietra d'Istria, le lancette in bronzo dorato e le ore in piombo.

La scansione del tempo è data da una campana che batte le ore e i quarti.

Il costo è di 215 scudi.

La residenza comunale, appena ultimata, diviene luogo d'incontro e di scambio di opinioni.

Tra quelle mura si vivono le calde giornate dei mesi che precedono l'arrivo dei francesi, avvenuto nel febbraio del 1797.

In quelle stesse stanze si alzano le grida e i canti inneggianti alla democrazia e alla libertà, si decide la composizione del governo rivoluzionario, si ascolta la lettura dei messaggi del generale Bonaparte o dei suoi luogotenenti, dalla viva voce degli uomini messi a capo della municipalità del cantone rurale.

Una grande influenza sulle scelte dei Falconaresi nel periodo giacobino la esercita Francesco Montino del Monte, persona ben nota a Falconara, quale maggior possidente tra i nobili e non nobili, e presto divenuto uomo di spicco nella municipalità di Ancona, ove vien eletto a capo del governo provvisorio repubblicano e componente la missione a Milano che tratta l'ingresso di Ancona nella Cisalpina.

Francesco del Monte è ognora presente nella vita falconarese e pronto a contribuire al risanamento dei debiti comunali, prestando di tasca sua quanto necessita per far fronte alle più impellenti esigenze.

Anche nella vicenda della costruzione della residenza comunale il del Monte interviene con la concessione di denaro a cambio, per una somma pari a 450 scudi, al tasso del 5%, capace di garantire alla comunità i fondi necessari per l'ultimazione dell'edificio e per l'allestimento degli arredi interni.

Tramontata la breve stagione democratica, non muta gran che l'atteggiamento di Falconara nei confronti del restaurato governo pontificio, anzi si torna ad affermare con un più fresco linguaggio i limiti di un'indipendenza da Ancona, e non mancano continui riferimenti alle vertenze vinte di fronte alla magistratura nel corso del Settecento.

Si ricorda spesso agli Anconetani il contributo fornito da Falconara, senza troppe ritrosie, per sostenere la municipalità giacobina, tanto da evitare il verificarsi della necessità di ricorrere ad interventi repressivi contro i Falconaresi, al contrario di quanto avvenuto per altre comunità castellane.

Vengono più volte ricordate la forzata unione in un'unica comunità di Sirolo e Numana e la soppressione dei comuni di Castel d'Emilio, di Poggio e di Massignano, trasformati in entità soggette ad Ancona nel 1798.

Nessuno poi dimentica le minacce rivolte in quei mesi alle popolazioni di Monte S. Vito e Chiaravalle, onde quietarle e sottometterle ad Ancona.

Si torna a ripetere che la vicinanza di Francesco del Monte giova ai Falconaresi, e la cautela adoperata dal regime restaurato nei confronti della famiglia dei del Monte permette ai suoi esponenti di affiancare, se non proprio controllare, quanto vien deliberato in seno al consiglio comunale.

Inutile dire che Francesco del Monte è tra quanti sorreggono Falconara nel portare avanti, a partire dal 1802, la "risorta" questione, se così si vuol intenderla, con Ancona per la delimitazione dei rispettivi territori comunali e per l'esercizio dei carichi fiscali su terreni siti in Falconara e posseduti da cittadini anconetani.

Sono alcune proprietà degli Storani, dei Bonandrini, dei Fatati, dei regolari di S. Giovanni Battista in territorio di Barcaglione, e i possedimenti di Bonizio Trionfi, nella vasta e ricca piana delle Poiole, a riacutizzare un contrasto con Ancona, che sembrava definitivamente risolto con la sentenza del Buongoverno del 1783.

Come sempre le prove addotte dalle due comunità sembrano dar ragione ad entrambe.

Ancona non si dà per vinta e neppure Falconara è disposta a retrocedere.

Varie persone tentano di pacificare i due Comuni, avanzano proposte conciliative di diversa portata e abbastanza accomodanti.

L'effetto ottenuto è una radicalizzazione della controversia che arde soprattutto sull'antica appartenenza delle terre delle Poiole al Comune di Ancona e tenute in enfiteusi, dal 1756, dalla famiglia Trionfi, rappresentata in quel tempo da Bonizio Trionfi, figlio del magnate Francesco.

Non è possibile alcun tipo d'accordo e Ancona porta la disputa di fronte al Buongoverno affidandosi alla difesa dell'avvocato Vincenzo Salvadori, assistito da Paolo Fiorelli.

Il 1° giugno 1805 il ponente mons. Paolino Mastai Ferretti, della nobile famiglia senigalliese, zio di Giovanni Maria, il futuro Pio IX, illustra le ragioni di Ancona di fronte al Tribunale del Buongoverno.

Non si ottiene un'immediata sentenza; la decisione è rinviata e il suggerimento è quello che nel frattempo si trovi la via per un'intesa.

In tutti i modi si cerca di trovare un punto d'incontro, e da Roma giunge nell'ottobre del 1807 l'uditore del Buongoverno Carlo Solandieri col mandato di compiere un'ispezione ai luoghi in oggetto della contesa.

Egli riesce a stendere una ipotesi d'accordo, la quale viene accolta con favore dai Falconaresi ed è invece respinta a pieni voti, 35 contrari su 35 consiglieri presenti, nella seduta del consiglio comunale di Ancona del 3 novembre 1807.

Non c'è più tempo per riesaminare l'intera questione.

Gli eserciti napoleonici sono sempre più presenti nello Stato pontificio e il 12 febbraio del 1808 il tricolore francese torna a sventolare ad Ancona, appena giunta la notizia dell'avvenuta occupazione di Roma.

Il 2 aprile 1808 le provincie di Urbino, Ancona, Macerata e Camerino sono "irrevocabilmente e in perpetuo riunite" al Regno d'Italia, con capitale Milano.

L'11 maggio i rappresentanti francesi prendono possesso dei territori innalzando "le armi del regno".

Nel decreto di riunione delle province adriatiche al Regno d'Italia si stabilisce anche la suddivisione delle Marche in tre dipartimenti "organizzati tanto nell'amministrazione, quanto nel giudiziario, secondo le leggi e i regolamenti del regno".

Ciò significa l'immediata applicazione dei codici napoleonici e l'organizzazione dei pubblici uffici a somiglianza di modelli già sperimentati in Francia e nel nord d'Italia, nei quali sono previste larghe concessioni di autonomia ai poteri locali, seppur per ogni decisione presa a livello periferico occorra il vaglio dell'autorità prefettizia, saldamente legata e fedele al potere centrale.

In quest'operazione l'Italia ci guadagna.

Al piccolo centro a nord d'Ancona viene riconosciuta piena autonomia comunale e col decreto del 28 giugno 1808, firmato a Monza dal vicerè Eugenio, sono nominati i savi ai quali spetta l'amministrazione del Comune.

Essi sono scelti nelle persone di Francesco Marini, di Antonio Pauri, di Bernardo Palladini, di Ciriaco Rossini.

Formano insieme una giunta presieduta dal podestà Angelo Gerundini, a sua volta nominato con un altro decreto emanato nello stesso giorno.

Il podestà Gerundini e i savi governano un territorio che va oltre i consueti confini del Falconarese, comprendendo anche la vicina Camerata.

Le persone scelte dal vicerè Eugenio non sono nè più nè meno che le stesse avvicendatesi nel passato prestando eguali servizi sotto la bandiera pontificia, sotto quella repubblicana ed ora sotto quella dell'impero napoleonico.

Gli stessi nomi si ritrovano nelle compagini comunali degli anni della restaurazione pontificia, dopo il 1815, durante i quali Falconara mantiene le sue prerogative comunali allargando il suo territorio fino a comprendere l'abitato di Castelferretti.

Qui, per le leggi eversive della feudalità, volute e sostenute dal Consalvi, è definitivamente tramontata la contea della famiglia Ferretti, la quale dalla fine del Trecento a tutto il Settecento ha tenuto il paese esercitandovi ampi poteri, e rispondendone direttamente solo ai pontefici.

Nell'Ottocento è difficile trovare momenti di screzio tra la comunità falconarese e quelle limitrofe, nonostante le ripetute variazioni delle confinazioni nazionali a seconda del mutare delle norme giuridiche sulla composizione e distribuzione dei governi provinciali e comunali dello Stato pontificio.

Nella prima metà del secolo c'è un certo risveglio politico e resta notorio il gesto compiuto il 14 aprile del 1839 da uno sparuto gruppo di Falconaresi che al seguito di un alfiere, con tanto di tricolore italiano, e al canto di inni patriottici, raggiunge Castelferretti, sicuro di trovarvi l'appoggio necessario per una manifestazione contro l'autorità pontificia, per la diffusa presenza nel paese di elementi antipapali.

Succede una zuffa e Giuseppe Girolimetti vien riferito, creando sconcerto negli amministratori falconaresi, sui quali ricadono accese reprimende del Delegato apostolico di Ancona e di varie autorità romane.

L'episodio è una testimonianza rivelatrice di una partecipazione dei Falconaresi ai movimenti risorgimentali piuttosto rara, veramente.

Nonostante ciò siamo certi di una forte presa del mazzinianesimo anche da queste parti, e le prove più valide sono fornite da personaggi chiamati a dirigere la vita pubblica dopo l'annessione di Falconara al resto dell'Italia unita.

Il tranquillo passaggio dell'amministrazione locale dal regime papale a quello sabaudo è sancito nel corso di una solenne e straordinaria seduta del civico consesso tenutasi il 20 marzo 1861, ad appena tre giorni dall'avvenuta proclamazione dell'Unità d'Italia col discorso di Vittorio Emanuele II al parlamento subalpino.

Nei primi dieci anni dopo l'Unità Falconara conosce una prima grande espansione urbana, con un incremento delle abitazioni nella frazione Marina, e un conseguente aumento della popolazione, che nell'intero territorio comunale passa dalle 4.196 unità del 1861 a 4.487 nei primi anni Settanta.

La sola frazione Marina fa registrare nel 1871 721 abitanti, contro i 490 di un decennio prima e la ragione di un così rapido sviluppo si spiega con l'entrata in funzione dello snodo ferroviario che collega Ancona con Bologna e con Roma.

La possibilità di poter disporre di facili collegamenti stradali e su rotaia permette l'insediamento a Falconara di industrie di trasformazione, limitata dapprima dal settore agricolo-alimentare, e di agenzie di trasporto e di commercio.

Negli anni s'afferma poi un nuovo tipo d'economia fondata sul turismo balneare, e la spiaggia falconarese assurge a notorietà nazionale, sopratutto negli anni a cavallo tra i due secoli, e fino alla prima guerra mondiale.

Nei primi anni del Novecento si registra un altro vertiginoso aumento della popolazione residente, a vantaggio sempre della frazione Marina, dove gli abitanti censiti nel 1901 sono 1.319, saliti nel 1922 a 2.234, su 6.443 abitanti contati nell'intero territorio comunale.

Il primo decennio del XX secolo vede Falconara partecipe delle tensioni, delle speranze e del progresso dell'Italia.

Con notevole frequenza nella frazione Marina si tengono riunioni, convegni e congressi di organizzazioni politiche e sindacali.

Molto attivo è il sindacato ferrovieri che in Falconara conta numerosi aderenti e le lotte per l'emancipazione dei dipendenti delle società ferroviarie sono abbastanza seguite in un centro abitato dove le famiglie con un reddito derivato dall'impiego nelle ferrovie sono la stragrande maggioranza.

Tale vivacità di incontri ad ogni livello politico crea fermenti vivi per la formazione di gruppi dal chiaro programma riformista.

I partiti operai e della sinistra in genere godono di ampia popolarità e permettono la formazione di giunte comunali abbastanza stabili, tant'è che il sindaco repubblicano Orlando Mondaini riesce a restare alla guida dell'amministrazione comunale pressochè ininterrottamente dal 1906 al 1920.

In quegli anni, nonostante la non breve parentesi della guerra mondiale, si registra una crescita del centro urbano di Falconara e la cittadina viene dotata di tutti i servizi pubblici e sociali che necessitano ad un moderno centro abitato.

Negli anni Venti è talmente aumentata d'abitanti la frazione Marina da divenire il più grosso agglomerato del territorio comunale.

Per agevolare l'afflusso agli uffici comunali, ridimensionati nella vecchia sede nel centro storico, si opta per la costruzione di una residenza municipale situata a metà collina, affidandone la realizzazione all'ingegnere Giovanni Bianchi.

La nuova sede è ufficialmente inaugurata nel 1925.

Nel frattempo la lunga esperienza amministrativa del sindaco Mondaini si interrompe bruscamente nel 1920, dopo un'inutile resistenza contro i primi duri attacchi dello squadrismo fascista.

Numerosi episodi di violenze contro le persone e le cose segnano il biennio 1920-22 e il fatto più clamoroso resta la calata a Falconara, su trasporti ferroviari, di camicie nere umbre, toscane e romagnole che nella notte del 5 agosto 1922, insieme ai fascisti locali,assaltano, devastano, danno alle fiamme le sedi dei circoli dei ferrovieri e dei cacciatori, ritenuti luogo di raduno dei simpatizzanti per i partiti della sinistra.

Nei mesi dell'autunno del '22 altre violenze sono perpetrate contro alcune sedi di partito e privati cittadini.

L'impossibilità di reagire alle sopraffazioni porta all'apertura di una crisi politica dalla quale non sarà facile uscire.

Nel novembre del 1922 e nell'aprile del 1923 si tengono due turni di elezioni amministratrive dopo i quali non è possibile dar vita a giunte stabili.

Falliscono uno dietro l'altro i tentativi di Gironzi e Radicioni per salvare le istituzioni democratiche.

La strada è aperta perchè il Comune cada in mano a persone fedeli al fascismo e allorquando il regime mussoliniano ha il pieno controllo di tutti i poteri dello Stato e il Governo vara un provvedimento legislativo di riforma delle autonomie locali, Falconara è tra i primi Comuni d'Italia ad essere soppresso.

Col decreto del 15 aprile 1928 (n. 882) ha inizio un ventennio durante il quale il territorio comunale è smembrato in due parti.

La porzione a nord dell'Esino, fino al confine con il Comune di Montemarciano, è ceduta al Comune di Chiaravalle, mentre le zone a sud dell'Esino, compresa Castelferretti, sono assorbite dal Comune di Ancona.

E' una situazione che non sarà mai accettata di buon cuore dai Falconaresi, anche perchè c'è un'elevata insensibilità da parte dei Comuni ai quali sono stati aggregati i territori falconaresi ad assolvere alle esigenze degli abitanti, e cresce il malcontento.

All'indomani della Liberazione si costituisce un Comitato, del quale fanno parte i rappresentanti delle forze politiche e sindacali, ricostituitesi dopo la caduta del regime, e formatesi durante la Resistenza.

Il Comitato stila un documento col quale si chiede al Governo nazionale il riconoscimento dell'autonomia comunale a Falconara.

Occorre attendere parecchi mesi e superare contrasti e opposizioni di varie forze politiche e di gruppi di interesse per ottenere, a breve distanza dalle elezioni politiche, per il primo Parlamento repubblicano previste per l'aprile del 1948, la firma del decreto con il quale è ricostituito il Comune di Falconara, e pubblicato il 2 marzo 1948 sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica.

Da quella data, presto si arriva alle elezioni del novembre che danno la vittoria alle formazioni della sinistra e permettono di insediare la giunta capeggiata da Giannetto Cionna.

Si apre un altro periodo di rapida crescita per Falconara favorito dall'insediamento di stabilimenti industriali e lo sviluppo diviene vertiginoso negli anni Sessanta per il massiccio afflusso di gente dalle zone interne della regione, conseguente allo spopolamento delle campagne e delle zone dell'alta collina e della montagna marchigiana.

Non va sottovalutata anche una certa emigrazione dal meridione d'Italia.

Il richiamo è costituito dalle larghe possibilità d'impiego possibili negli uffici della pubblica amministrazione nel vicino capoluogo di regione, nonchè presso le numerose imprese private.

La possibilità di disporre di comode vie d'accesso ad Ancona e precise scelte politiche della civica amministrazione tendenti a facilitare la crescita urbanistica e residenziale permettono a Falconara di passare sveltamente dai 13.000, o poco più, abitanti dell'inizio degli anni Cinquanta, agli oltre 24.000 sul finire degli anni Sessanta, ai 30.000 e passa di questi ultimi anni Ottanta.

Il Comune di Falconara viene oggi a collocarsi tra i primi, per numero di abitanti, nelle Marche, superando centri dell'entroterra di lontana origine storica.

Alle soglie del XXI secolo si pone il problema di limitare l'incontrollato sviluppo per rendere la città più vivibile, e non a caso negli ultimi tempi si sente sempre più parlare di una rifondazione di Falconara.

Simili intenzioni non potranno realizzarsi senza tener conto del ricco passato di storia e della connaturale abitudine dei Falconaresi per l'apprezzamento delle libertà singole e per il rispetto della vita comunitaria.

 

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