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| Paolo VI, Litterae
  Apostolicae Motu proprio datae "Altissimi cantus" septimo exeunte saeculo
  a Dantis Aligherii ortu, in Acta Apostolicae Sedis. Commentarium
  officiale, anno e vol. LVIII, 1966, Città del Vaticano, pp. 22-37.  Titolo, titoli
  intermedi e traduzione redazionali.   "Il signore dell’altissimo canto":   Dante Alighieri   [Introduzione]   [1.] Quest’anno ricorre
  un centenario del signore dell’altissimo canto, di Dante Alighieri,
  centenario degno di celebrazione: sono trascorsi infatti sette secoli da
  quando egli nacque a Firenze, città generosa nutrice anche di altri agili e
  poderosi ingegni.   [2.] È perciò degno e
  giusto che soprattutto il popolo italiano onori e commemori con grande
  ossequio e a gara il suo massimo poeta, l’onore luminosissimo della sua
  letteratura. Egli infatti è il principale creatore della sua lingua e rimane,
  attraverso le età, protettore e custode della sua civiltà, così come ne
  espresse e ne rappresentò la forma e l’immagine.   [3.] E invero anche le
  altre nazioni formate alla civiltà cristiana —— e non sono poche — desiderano
  partecipare a questa solenne rievocazione, e il nome di Dante, che gode e
  sempre godrà ovunque della fama di una gloria immortale, ora certamente
  rifulge ancor di più, quasi fiaccola portata in un luogo più eccelso.   [4.] Ed è pure chiara
  l’opportunità che la Chiesa cattolica sia presente nel tributare l’onore di
  una tale lode: essa lo annovera infatti fra gli uomini illustri adorni di
  valore e di sapienza, inventori di melodie musicali, amanti del bello (1).   [5.] Nell’eccelso coro
  dei poeti cristiani, dove si distinguono Prudenzio, sant’Efrem Siro, san
  Gregorio Nazianzeno, sant’Ambrogio vescovo di Milano, san Paolino da Nola,
  sant’Andrea di Creta, Romano Melode, Venanzio Fortunato, Adamo di San
  Vittore, san Giovanni della Croce e non pochi altri più recenti, che sarebbe
  lungo nominare a uno a uno, l’aurea cetra di Dante, la sua armoniosa lira
  risuonano con una melodia ammirevole per la grandezza dei temi trattati e per
  la purezza dell’afflato e dell’ispirazione, meravigliosa per il vigore
  congiunto a una squisita eleganza.   [6.] Per questo —
  seguendo l’esempio del Nostro Predecessore Benedetto XV, che pubblicò nella
  ricorrenza del sesto centenario della morte di Dante Alighieri la lettera
  enciclica In praeclara summorum (2) — anche Noi vogliamo tributare un segno
  di omaggio all’illustrissimo poeta. E questo non solo per rendergli gloria in
  questa circostanza passeggera, che s’inserisce nel corso del tempo e subito
  ne è travolta, ma per perpetuarne in qualche modo la gloria, non con
  l’erigere un silenzioso e gelido monumento di pietra o di bronzo, ma
  piuttosto con il far zampillare una fonte che fluisca di acque perenni, sia
  in sua lode sia a beneficio di una promettente gioventù. Perché i giovani —
  uno dopo l’altro affidati alla sua scuola e divenuti alunni di un tale
  maestro — diventino capaci d’illustrare la sua memoria e la sua opera, perché
  la sua poesia davvero verdeggi nel campo delle discipline letterarie, perché
  la sua sapienza umana e cristiana si affermi con nuova forza nella tradizione
  culturale degl’italiani, secondo la consuetudine e l’uso degli antenati che a
  giustissimo titolo venerarono Dante Alighieri come padre della loro lingua
  viva.   [7.] Abbiamo istituito
  perciò — in accordo con le competenti autorità accademiche — un insegnamento
  o Cattedra di Studi Danteschi presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore
  di Milano, quel grande ateneo a cui il Nostro venerabile Predecessore Pio XI
  dedicò tanta cura e tanta sollecitudine, e che i Romani Pontefici suoi
  successori — e Noi pure, sempre, ma in modo particolare quando svolgemmo il
  Nostro ministero come arcivescovo in Milano — hanno sempre trattato con
  grande onore e con pari benevolenza. Stabiliamo perciò motu proprio e
  per Nostra iniziativa che essa abbia un insegnamento o cattedra che promuova
  gli Studi Danteschi.   [8.] E Ci dà una grande
  gioia il fatto che questa fondazione testimoni pubblicamente la singolare
  venerazione che Noi abbiamo per il cantore della Divina Commedia,
  venerazione che vogliamo venga accesa con una fiamma inestinguibile e alimentata
  con maggior forza fra i giovani studenti, che vengono istruiti in
  quell’ateneo nelle migliori discipline e arti. Ne usciranno — questa è la
  Nostra speranza — alunni notevoli per l’acume dell’ingegno e per la pietà,
  essi stessi capaci a loro volta di farsi divulgatori di questi studi, da cui
  derivano tutte le ricchezze dell’aurea miniera dantesca; e queste ricchezze
  possano essere note a quanti amano il sapere e offrire alla letteratura delle
  future generazioni una fioritura rinnovata.   [9.] Qualcuno potrebbe
  forse chiedere come mai la Chiesa cattolica, per volontà e per opera del suo
  Capo visibile, si prenda così a cuore di celebrare la memoria del poeta
  fiorentino e di onorarlo. La risposta è facile e immediata: perché Dante
  Alighieri è nostro per un diritto speciale: nostro, cioè della religione
  cattolica, perché tutto spira amore a Cristo; nostro, perché amò molto la
  Chiesa, di cui cantò gli onori; nostro, perché riconobbe e venerò nel Romano
  Pontefice il Vicario di Cristo in terra.   [10.] Né rincresce
  ricordare che la sua voce si sia levata e abbia risuonato duramente contro
  alcuni Pontefici Romani, e che abbia ripreso con asprezza istituzioni
  ecclesiastiche e uomini che furono ministri e rappresentanti della Chiesa.
  Non passeremo sotto silenzio a questo proposito l’inclinazione del suo
  temperamento, questo aspetto della sua opera. Conosciamo bene infatti quanta
  e quale fu l’amarezza del suo animo, amarezza che fu tale da non risparmiare
  ben più duri rimproveri alla sua patria dilettissima, Firenze. Senza dubbio
  bisogna concedere alla sua arte e alla passione politica, soprattutto perché
  riprende vizi deplorevoli, una benigna indulgenza, che il compito di giudice
  e di correttore che egli rivendica a sé gli concilia.   [11.] Del resto è noto
  e riconosciuto che il suo temperamento così animoso non ha mai scosso la sua
  ferma fede cattolica e la sua filiale affezione verso la Santa Madre Chiesa.   [12.] Dante è nostro,
  Ci sia lecito ripetere a ragione, e lo affermiamo non per gloriarci di un
  tale trofeo per un amore ambizioso e orgoglioso, quanto piuttosto per
  ricordare a noi stessi il dovere di riconoscerlo tale, e di esplorare nella
  sua opera le ricchezze inestimabili della forza e del senso del pensiero
  cristiano, convinti come siamo che solo chi scava nelle segrete profondità
  dell’animo religioso del sommo poeta può comprendere a fondo e gustare con
  pari piacere i meravigliosi tesori spirituali nascosti nel poema.     [Catarsi e
  afflato religioso nella "Divina Commedia"]   [13.] E che ciò si esiga
  dal genere stesso del poema di Dante Alighieri risulta manifesto. Ogni poema
  degno di questo nome infatti eccita e solleva gli animi a pensieri e a
  sentimenti nuovi e possenti grazie a quella forza detta catarsi, forza
  propria della vera arte e della vera poesia. E questa elevatezza e sublimità,
  che risplende nella Divina Commedia in modo notevolissimo e singolare,
  scaturisce e deriva dal senso religioso, e più distintamente dalla fede
  cattolica.   [14.] Certamente la
  fede, che "come stella in cielo in me scintilla" (3), e che
  Dante Alighieri possiede in modo tale da non considerare nulla maggiore a
  essa, "[...] questa cara gioia / sopra la quale ogni virtù si
  fonda" (4), riempie — dal fondamento alla sommità, in tutte le sue
  parti — di luce e di calore questo tempio di poesia, che è tempio di fede.
  Per questo, da ciò su cui si fonda, il poema è detto sacro: "Se mai
  continga che ‘l poema sacro, / al quale ha posto mano e cielo e terra, / sì
  che m’ha fatto per più anni macro, / vinca la crudeltà che fuor mi serra /
  del bello ovile ov’io dormi’ agnello, / nimico ai lupi che li danno guerra; /
  con altra voce omai, con altro vello / ritornerò poeta, ed in sul fonte / del
  mio battesmo prenderò ‘l cappello" (5).     [Dante
  coronato poeta ecumenico nel suo "bel San Giovanni"]   [15.] A questo punto Ci
  sia lecito esprimere la nostra perfetta e piena gioia per il fatto che — a
  dar compimento al voto e al presagio di Dante Alighieri — abbiamo felicemente
  potuto far sì che nel battistero del "mio bel San Giovanni"
  (6) — dove, purificato dal sacro lavacro, divenne cristiano e fu chiamato
  Dante — con grande concorso di Padri del Concilio Ecumenico Vaticano II fosse
  incastonato in una corona d’alloro dorata il monogramma in oro di Cristo,
  dono da Noi inviato per attestare la grandissima riconoscenza del mondo
  cristiano per aver cantato in modo mirabile "la verità che tanto ci
  sublima" (7).   [16.] L’alloro, di cui
  è adorno il capo di Dante Alighieri, onore e ornamento dell’Italia e di tutto
  il genere umano, non è mai seccato né inaridito. Tuttavia era opportuno che
  fosse accresciuto di nuove fronde, poiché egli merita, per la grandezza
  dell’ingegno e dell’opera, il titolo di poeta appartenente a tutte le genti,
  o ecumenico, illustrissimo, degnissimo di uno studio e di un ascolto assidui.   [17.] Certamente il
  poema di Dante Alighieri è universale: nella sua immensa larghezza abbraccia
  cielo e terra, eternità e tempo, i misteri di Dio e le vicende degli uomini,
  la dottrina sacra e le discipline profane, la scienza attinta alla divina
  Rivelazione e quella attinta dal lume della ragione, quanto egli aveva
  conosciuto per esperienza diretta e le memorie della storia, l’età in cui
  visse, e le antichità greche e romane; insomma, costituisce evidentemente il
  monumento più rappresentativo del Medioevo. E se si osserverà la sua forma e
  il suo contenuto, vi si vedranno certamente i frutti della sapienza degli
  orientali, del lógos dei greci, della civiltà dei romani, e vi si
  vedranno raccolte in sintesi le ricchezze del dogma della religione cristiana
  e dei precetti della legge, soprattutto così come furono elaborati dai
  dottori. Dante Alighieri segue Aristotele in filosofia, Platone nella
  tensione dell’intelletto a contemplare i modelli esemplari delle cose,
  sant’Agostino nel modo di concepire la storia e nell’importanza che vi
  attribuisce, è alunno fermo e fedele di san Tommaso d’Aquino in teologia,
  così che la sua opera — fra l’altro — è quasi uno specchio costituito di
  frammenti della Somma teologica del Dottore Angelico. E questo è
  certamente vero in generale; ma tuttavia è anche vero che Dante è mosso non
  poco dall’autorità di sant’Agostino, di san Bernardo, dei Vittorini, di san
  Bonaventura, né è estraneo a qualche influsso apocalittico dell’abate Gioachino
  da Fiore, è solito infatti protendersi verso cose che albeggiano o che, non
  ancora nate, sono contenute nel grembo del futuro.     [Il fine
  della "Divina Commedia" è soprattutto pratico e trasformante]   [18.] Il fine della Divina
  Commedia è anzitutto pratico ed è volto a trasformare e a convertire.
  Essa in realtà non si propone solo di essere poeticamente bella e moralmente
  buona, ma soprattutto di cambiare radicalmente l’uomo e di condurlo dal
  disordine alla sapienza, dal peccato alla santità, dalle sofferenze alla
  felicità, dalla considerazione terrificante dei luoghi infernali alle
  beatitudini del Paradiso. E il sommo vate l’afferma chiaramente nella lettera
  a Cangrande della Scala: "Il fine del tutto e della parte potrebbe
  essere molteplice, ossia prossimo e remoto; ma, tralasciando un esame
  minuzioso, si può dire brevemente che il fine del tutto e della parte è
  allontanare i viventi in questa vita dallo stato di miseria e condurli allo
  stato di felicità" (8).   [19.] Stando così le
  cose, la Divina Commedia può essere chiamata un itinerarium mentis
  in Deum, dalle tenebre della dannazione eterna alle lacrime della
  penitenza purificatrice e, di grado in grado, da una luminosa chiarezza a una
  ancor più lucente, da un amore fiammante a uno ancor più fiammante, su su
  fino alla Fonte della luce, dell’amore e della dolcezza eterna: "Luce
  intellettüal, piena d’amore; / amor di vero ben, pien di letizia; / letizia
  che trascende ogni dolzore" (9).   [20.] E i temi della
  poesia in effetti sono offerti come testimonianze sicure e moniti perché si
  ascenda a Dio. La natura e l’ordine soprannaturale, la verità e gli errori,
  il peccato e la grazia, il bene e il male, le opere degli uomini e gli
  effetti che ne conseguono, tutti sono considerati, giudicati, valutati al cospetto
  di Dio, e mostrano il loro vero valore nella prospettiva dell’eternità. E
  questa ascesa, rivolta a ciò che più è segreto ed eccelso, diventa epos
  di vita interiore, epos di grazia celeste, epos di viva
  esperienza mistica, di virtù multiforme; diventa teologia della mente e
  teologia del cuore.     [Dagli abissi
  infernali alla visione della Santissima Trinità.    I santi e la Regina dei santi]   [21.] Gli abissi della
  pena dei vizi, i regni sereni dove le anime vengono purificate da ogni
  macchia, le ardue vette a cui conducono i molteplici cammini di santità, e
  coloro che furono altissimi modelli di santità — quali lodi vengono tessute
  di san Francesco, san Domenico, san Pier Damiani, san Benedetto da Norcia,
  san Romualdo, san Bernardo! —, tutto ciò sale a raggiungere un vertice. Per
  chi dunque ne coglie il senso salutare, i cento canti costituiscono cento
  gradini di una scala, come quella che Giacobbe vide in sogno, che salgono dai
  luoghi più bassi alla luce della Santissima Trinità. E prima del gradino più
  elevato sta la Vergine Maria, Madre di Dio, che san Bernardo prega di aiutare
  come avvocata propizia il pellegrino nuovo e inesperto affinché il suo
  desiderio supremo venga soddisfatto.   [22.] Certamente Maria
  — "Il nome del bel fior ch’io sempre invoco / e mane e sera"
  (10), colei "che là su vince, come qua giù vinse" (11) —
  appare al poeta fiorentino amministratrice dei doni celesti; essa, fulgida
  porta del cielo, rimuove le distanze che separano il Creatore e le creature e
  introduce a fissare la mente in Cristo e nella Verità Suprema: "Or
  questi, che da l’infima lacuna / de l’universo infin qui ha vedute / le viste
  spiritali ad una ad una, / supplica a te, per grazia, di virtute / tanto, che
  possa con li occhi levarsi / più alto verso l’ultima salute. / E io, che mai
  per mio veder non arsi / più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei preghi / ti
  porgo, e priego che non sieno scarsi, / perché tu ogni nube li disleghi / di
  sua mortalità co’ prieghi tuoi, / sì che ‘l sommo piacer li si dispieghi
  (12).     [È
  simboleggiato il genere umano in cerca della pace]   [23.] Protagonista è lo
  stesso poeta, che rappresenta il genere umano; egli, sempre sotto il velo
  dell’allegoria, lo conduce a riconoscere le proprie colpe e a riprendere la
  via della virtù, a lasciarsi illuminare e purificare; a unirsi finalmente e
  ad aderire alla somma Verità e al sommo Bene.   [24.] La legge divina è
  stata data agli uomini perché, seguendola, raggiungessero la felicità sia in
  questa vita terrena sia in quella eterna a cui aspirano, seguendo il vero
  bene che ispira il retto amore, e fuggendo il male, origine di un amore
  distorto, della cupidigia e della malizia.   [25.] "È chiaro
  che nella quiete, cioè nella tranquillità della pace, il genere umano si trova
  nelle migliori condizioni per perseguire il suo fine specifico, che è quasi
  divino, secondo quel famoso passo: "l’hai fatto poco meno degli
  angeli" (Ps. VIII, 6)" (13).   [26.] Questa pace — che
  riguarda i singoli, le famiglie, le nazioni, il consorzio umano, pace interna
  ed esterna, pace individuale e pubblica —, questa tranquillità dell’ordine è
  turbata e scossa perché la pietà e la giustizia vengono disprezzate. Perciò,
  per restaurare l’ordine e la salvezza, vengono chiamate a illuminare, in
  reciproca armonia, la Fede e la ragione, Beatrice e Virgilio, la Croce e
  l’Aquila, la Chiesa e l’Impero, la ridestata coscienza della condizione in
  cui sono posti gli uomini sulla terra; e intanto viene predicato l’universale
  annuncio — oscuro ma certo — del secolo venturo. Il cielo e la terra insieme
  fanno risuonare questo Vangelo di pace.   [27.] Certamente la Divina
  Commedia è poema di pace: lugubre canto della pace per sempre perduta
  nell’Inferno; dolce canto della pace verso cui sospira la speranza è il
  Purgatorio; e il Paradiso è un magnifico canto di esultanza della pace
  posseduta nella pienezza e per sempre.     [Tempio di
  sapienza e d’amore]   [28.] Similmente la Divina
  Commedia è tempio di sapienza e d’amore, di una sapienza che spira amore
  e di un’amore ripieno di sapienza. Chi può negare che i versi del divino
  poeta ardano d’amore per gli uomini, amore da cui nasce un pressante ed
  efficace ammonimento a essere — in qualsiasi stato e condizione di vita —
  migliori, e a dirigersi verso le mete loro poste dal provvidentissimo Dio?   [29.] Per questo il
  poema ha cura di purificare ogni aspetto della società, con l’affermare una
  libertà che affranchi dalla schiavitù del male, e che spinga a trovare e ad
  amare Dio nel giusto uso dei suoi doni, sia quelli che riguardano la storia,
  sia quelli che riguardano tutti gli aspetti della vita. Dante infatti
  professa una stima e una valorizzazione di quanto è umano, i cui aspetti
  principali riteniamo opportuno spiegare come si conviene.     [Umanesimo di
  Dante]   [30.] Quest’umanesimo
  del sommo poeta trae origine da un aspetto della dottrina di san Tommaso
  d’Aquino, e si distingue per il suo carattere ottimistico. Si basa su sicuri
  fondamenti, cioè che la grazia non distrugge la natura, ma la risana e la
  perfeziona, e che "persona est nomen dignitatis" (14). Si
  oppone diametralmente ad alcune tesi ascetiche e mistiche secondo cui tutti
  dovrebbero aspirare al contemptus mundi come unica forma di vita
  perfetta.   [31.] Dante Alighieri
  non solo approva tutti i valori umani — intellettuali, morali, affettivi,
  culturali, civili —, ma addirittura li esalta. E ciò che va soprattutto
  tenuto presente è che questi beni vengono apprezzati e stimati quando egli
  s’immerge nel divino, dove la contemplazione delle cose celesti avrebbe
  potuto rendere senz’altro vuoti e inutili i beni terreni. Anzi, la sua
  umanità si delinea lì ancor più pienamente e si perfeziona nel vortice
  dell’amore divino; anche in seno alla splendente immensità dei cieli egli si
  sente preso dall’urgenza del messaggio di verità e di bontà che
  "l’aiuola che ci fa tanto feroci" (15), quel lontanissimo punto
  della nostra infelice terra, attende da lui.   [32.] Per quanto
  riguarda l’antichità classica, egli ritiene che sia stata una provvidenziale
  preparazione alla religione cristiana e che ne abbia spesso offerto
  allegorie; diversamente rispetto a quanto accadde nel cosiddetto
  Rinascimento, o almeno presso molti uomini di quel periodo, che valutava i
  beni umani indipendentemente da Dio; nel medesimo periodo poi l’umanesimo si
  volgeva alle istituzioni e ai costumi pagani, e veniva inficiato dall’errore
  pelagiano.     [Visione
  politica]   [33.] Ci sia lecito
  accennare di passaggio alla sua dottrina politica.   [34.] Le due potestà, la
  Chiesa e l’Impero, sono state ordinate da Dio perché conducano gli uomini a
  conseguire la felicità, la prima quella celeste, il secondo invece quella
  terrena; e come quelle felicità sono distinte fra loro, benché la seconda sia
  subordinata alla prima, così ciascuna potestà — nella sfera e nell’ambito
  propri — è indipendente dall’altra, e questo per evitare la confusione fra
  quanto è sacro e quanto è profano. Tuttavia esse devono aiutarsi
  reciprocamente, e certamente, in materia di fede e di morale, questo aiuto
  consiste in una pronta ubbidienza dell’imperatore al Sommo Pontefice; l’una
  potestà e l’altra poi sono al servizio della res publica christiana.   [35.] La Chiesa, libera
  e non impacciata dal fardello di un inutile fasto, priva di preoccupazioni
  terrene, si dedica con ogni zelo a proclamare la verità e a farla
  fruttificare: "Non vi si pensa quanto sangue costa / seminarla nel
  mondo, e quanto piace / chi umilmente con essa s’accosta" (16).   [36.] E sicuramente ciò
  non ha nulla a che vedere con la tesi, introdotta da Marsilio da Padova e
  diffusasi nella nostra epoca, secondo cui la città terrena deve essere
  radicalmente separata dalla Chiesa.   [37.] All’imperatore è
  affidato il compito, più che altro di ordine morale, di far trionfare la
  giustizia e di annientare l’avidità, che è causa di disordine e di guerre: da
  ciò appare necessaria una monarchia universale. Questa — tratteggiata in
  termini medievali — esige una potestà sovranazionale, che faccia vigere
  un’unica legge a tutela della pace e della concordia dei popoli. Il presagio
  del divino poeta non è affatto utopistico, come ad alcuni potrebbe sembrare,
  dal momento che ha trovato nella nostra epoca una certa attuazione
  nell’Organizzazione delle Nazioni Unite, con estensione e beneficio che
  tendono a riguardare i popoli del mondo intero.     [Poeta dei
  teologi, teologo dei poeti]   [38.] Non possiamo
  esimerCi dall’accennar pure brevemente a quali relazioni intercorrano fra la
  verità della religione e quella della poesia, e questo per porre maggiormente
  in luce come tali rapporti si realizzino nella Divina Commedia e per
  trattare in breve dell’arte poetica di Dante Alighieri, dal momento che
  soprattutto ciò è, per molti motivi, richiesto perché la poesia rifiorisca,
  sia in generale sia, particolarmente, quella religiosa.   [39.] Giovanni di
  Virgilio preparò per il sepolcro di Dante un epitaffio in cui così lo lodava:
  "Dante teologo, di nessuna dottrina ignaro, / che filosofia scaldi
  nel suo nobile seno".   [40.] Da questi egli è
  stato onorato soprattutto con il titolo di teologo. È prevalso tuttavia — per
  consenso che non tardò a farsi unanime — l’appellativo di sommo poeta, con
  cui lo acclamarono i secoli; e divina è stata chiamata la sua Commedia.   [41.] L’onore di entrambi
  i titoli gli si addice giustamente. E tuttavia non va considerato poeta,
  bensì teologo, ma ancor meglio va proclamato signore dell’altissimo canto,
  poiché si rivelò teologo dalla mente sublime.   [42.] La nobiltà, la
  grandezza, i pregi grandissimi della sua poesia sono a tal punto evidenti che
  non è affatto il caso di ricorrere, per provarle, a complicate
  argomentazioni. L’eccelsa cima di un monte, non toccata — per tanto
  trascorrere di tempo — dall’erosione delle acque, non ha bisogno di discorsi
  lunghi e prolissi per mostrarsi nella sua grandezza: è sufficiente darle un
  rapido sguardo.     [Mistagogo
  nel santuario dell’arte]   [43.] È più utile che,
  come Virgilio fu guida a Dante, così Dante possa essere per altri, quanto più
  numerosi possibile, un secondo Virgilio, che li introduca nel santuario
  dell’arte, e soprattutto dell’arte poetica. E questo è ancor più auspicabile
  ai nostri tempi, in cui al progresso economico e tecnologico non di rado
  corrisponde un regresso della vita spirituale. L’arte soffre d’indigenza:
  assai spesso viene portata a espressioni inconsistenti e unilaterali, viene
  ridotta a un soggettivismo — per così dire — manicheo, sprezzante della
  natura, viene trasformata in riso cinico, in descrizione ed esaltazione dei
  vizi; e, per quanto riguarda la poesia, si ammette solamente o di gran lunga
  si preferisce la lirica, poiché si pongono restrizioni e limitazioni sterili
  e per nulla indispensabili.     [Essenza
  della poesia]   [44.] Ci sono alcuni che
  deducono da princìpi filosofici da loro inventati o abbracciati che non v’è
  differenza fra poesia e prosa; altri invece, pur riconoscendo tale
  distinzione, attribuiscono alla poesia il carattere di liricità, teso a
  commuovere l’animo, ed esigono da essa il solo linguaggio del sentimento e
  dell’intuizione, mentre alla prosa attribuiscono il carattere logico,
  scientifico, oggettivo.   [45.] È evidente che
  nella profondità dello spirito si può trovare il luogo da cui la poesia trae
  i propri temi. Ma pure, quando abbandona o disprezza la facoltà intellettiva,
  non giunge mai a qualcosa di logico, perspicuo, concreto; e così viene alla
  luce gracile, oscura, sostenuta da uno stile ampolloso, e produce emozioni
  che si spengono in vuoto languore.   [46.] La costruzione
  poetica invece non va affatto svalutata per la sua grandezza. Presso gli
  antichi le forme poetiche più apprezzate erano il poema epico e la tragedia.
  Platone attribuiva il primato alla prima, Aristotele invece alla seconda
  (17), poiché riteneva che vi fossero contenute le arti più sublimi.     [Psicagogia,
  ispirazione e ritmo]   [47.] Il criterio per
  determinare il grado di bellezza e di perfezione era richiesto soprattutto
  alla psicagogia, ossia alla potenza con cui l’autore — in modo efficace,
  conveniente e compiuto — conduce gli animi là dove si era proposto. E anche
  Orazio attribuisce all’arte questa regola imprescindibile: "Non basta
  che i componimenti poetici siano belli; siano piacevoli: / E conducano
  ovunque vogliano l’animo dell’uditore" (18).   [48.] Ora, tutto ciò si
  può ottenere con il linguaggio proprio della poesia, e soprattutto con quella
  facoltà, certamente misteriosa e che forse mai sarà ben conosciuta, che
  chiamiamo ispirazione divina. Questa non abbatte né disprezza affatto la
  ragione, ma costituisce piuttosto un altro modo di conoscere, un’altra via
  per impossessarsi della realtà, e scopre così rapporti che quella non vede.
  Ma l’arte ha bisogno della ragione nell’attività tumultuosa che precede il
  bagliore dell’ispirazione, che viene a illuminare, placare, rendere semplice
  tutto quanto era stato abbozzato; e della medesima ragione ha bisogno pure
  per il successivo completamento dell’opera, che va senza dubbio condotto con
  abilità e talento, per partecipare agli altri gli stati e le disposizioni
  d’animo non solo suscitando idee, immagini, affetti, ma anche con una
  perfetta fusione e armonia dei diversi elementi: infatti "principio e
  fonte del bello scrivere è l’esser saggio" (19).   [49.] A ciò s’aggiunga
  che è necessario produrre quasi un fluido, come una forza magnetica, grazie
  all’ordine e all’accorta congiunzione delle parole, alla dolcezza del suono,
  al ritmo: "A chi abbia ingegno, mente più divina e bocca / che canti
  grandi cose, darai l’onore di un tale titolo [di poeta]"
  (20).     [Eccellenza
  di forma e di pensiero nella "Divina Commedia"]   [50.] E certamente in
  Dante Alighieri la forza come di fiamma e l’ispirazione sono le cause che
  animano la sua opera e la sollevano a una mirabile altezza quasi in un abbraccio
  di tutto il mare dell’essere: "[...] I’ mi son un, che quando
  / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo
  significando" (21).   [51.] Nella Divina
  Commedia si trovano tutti i generi poetici: vi sono infatti l’epico, il
  lirico, il didascalico, il satirico, il drammatico, e di quest’ultimo sia
  quello di carattere che quello d’azione; e ciò viene ottenuto con un continuo
  combinare elementi diversi e molteplici, conservando l’armonia di una
  splendida unità architettonica. E tutti i sentimenti e i toni vi sono
  chiamati a risuonare: dolci e bellicosi, tristi e lieti, pieni di sprezzo e
  di ammirazione, esprimenti ira, terrore, paura, amore, preghiera, adorazione,
  dolce riso, estasi.   [52.] Con il suo stile
  tutto proprio, il sommo poeta canta le realtà più misteriose e sublimi della
  vita, i misteri di Dio e i più alti pensieri degli uomini. Quella fonte da
  cui sgorga un così largo fiume di eloquenza appare cosa grandiosa e
  straordinaria, sol che si pensi che si serve di quella lingua italiana allora
  neonata e informe, senza alcuna esperienza di espressione artistica. E
  proprio essa, "pane orzato [...] [e] sole nuovo" (22)
  —, che di fronte a Dante Alighieri potrebbe dire: "da mia natura /
  trasmutabile son per tutte guise" (23) —, gli si offre come
  strumento docile per esprimere — ora con dignità aristocratica, ora con una
  certa rozzezza popolare, ora con forza, ora con delicatezza — con molteplice
  timbro e colorito musicale tutto quanto muove il suo animo o rapisce la sua
  mente, accessi d’ira e slanci d’amore, rimproveri e lodi, le grida dei
  dannati nell’Inferno e le preghiere dei santi in Paradiso, visioni, sogni,
  presagi, decisioni, le sottigliezze della filosofia e le vette della
  teologia.     [Rapporti fra
  teologia e poesia]   [53.] Questo accenno
  alla teologia apre un problema che la riguarda. Alcuni critici hanno
  sostenuto che la Divina Commedia non fosse poetica quando e dove è
  impregnata di teologia. Altri invece ritengono diversamente, certi che
  proprio in quei punti essa risplenda e brilli di una luce meridiana, tutta
  sua. Non siamo di parere diverso da questi ultimi, sia per ragioni generali,
  sia per ragioni particolari, relative al problema sollevato dalla teologia.   [54.] Chi può mettere
  in dubbio che il senso religioso, le verità di fede, gli aneliti che dal
  finito salgono verso l’Infinito, siano stati e siano sempre una fonte da cui
  la poesia sgorga abbondantemente? Non ne è questa la forma più alta e più
  pura? Quando con il linguaggio che le è proprio — preferisce cantare anziché
  parlare, dipingere anziché argomentare, e scolpire, quando vuol perorare — la
  poesia esprime l’esperienza mistica, i moti della grazia, l’estasi, quando si
  eleva alla suprema Bellezza, al Bene e al Vero che trascende l’umana
  intelligenza, di fronte a cui vien meno la capacità di dire — "alla
  etterna luce, / che, vista, sola e sempre amore accende" (24) —,
  proprio allora essa diventa un dono preziosissimo della bontà divina, un
  riflesso della sua gloria: appare infatti: "[...] giorno a
  giorno / essere aggiunto, come quei che puote / avesse il ciel d’un altro
  sole adorno" (25).     [Preghiera e
  poesia]   [55.] Del resto i
  contemplativi, cioè gli uomini religiosi per eccellenza, sono portati più di
  tutti gli altri alla grande poesia; e meravigliosi esempi di essa sono da
  tutti considerati i vaticini dei profeti e i salmi di Davide.   [56.] Una segreta
  parentela unisce certamente i mistici e i veri poeti, e in generale gli
  artefici delle arti, di cui la poesia è generatrice e madre. In realtà il
  dono della poesia corrisponde, nell’ordine naturale, a quello della profezia
  e dell’estasi nell’ordine soprannaturale; infatti nella loro esplicazione vi
  è un analogo movimento e processo psicologico; mistici e poeti cercano la
  dimora più recondita dell’animo, il vertice dello spirito, il centro del
  cuore, dove gli uni sentono la presenza Dio, mentre gli altri vi percepiscono
  — benché non intimamente compresa, ma piuttosto sospettata e in qualche modo
  intuita — la presenza di un dono dell’"autore della bellezza"
  (26).     [Si coltivi
  la poesia religiosa: modello Dante Alighieri]   [57.] Cogliamo ora
  l’occasione che Ci si offre per esortare a coltivare la poesia religiosa, sia
  quella corale, accompagnata dalla musica, che raccoglie in sé i sentimenti
  della moltitudine nell’interpretazione delle vere voci della natura, nella
  celebrazione delle feste religiose e degli avvenimenti importanti — lieti e
  tristi — che accadono, sia di quella poesia che manifesta i colloqui
  dell’anima con Dio, che le apre la fonte della vita e la trascende.   [58.] Senza dubbio i
  credenti in Cristo, nel cui cuore, per la grazia della fede, abita come
  maestro e pedagogo il Verbo della vita, possono considerare loro propria in
  modo particolare l’arte della parola, anche se semplice e umile. La coltivino
  dunque, come un terreno fecondo, guardando all’esempio di Dante Alighieri,
  che ne è modello difficilmente superabile anche per le ragioni che esponiamo.   [59.] Se si considera
  l’unione, nella sua opera, degli elementi dottrinali e dei princìpi dell’arte
  poetica, appare con evidenza l’opportunità e la validità della loro mutua
  alleanza. Nessuno dei due elementi — benché l’uno sia all’altro sottoposto —
  è giustapposto in modo disordinato all’altro, entrambi invece costituiscono
  un organismo vivo e armonioso, non diversamente che le ossa e la carne nel
  corpo umano: cosicché se l’uno viene a mancare anche l’altro non può
  sostenersi; la bellezza consiste infatti nel loro accordo.     [La bellezza
  ancella di verità e di bontà]   [60.] Di più: la
  teologia e la filosofia hanno un altro rapporto con la poesia, consistente in
  questo: la bellezza, offrendo alla dottrina il suo ornamento e la sua veste —
  ora con la dolcezza del canto, ora con le immagini dell’arte figurativa —
  apre la strada a che i suoi preziosissimi insegnamenti siano comunicati a
  molti.   [61.] Le alte
  disquisizioni e i sottili ragionamenti risultano inaccessibili agli umili,
  che pure — e sono una moltitudine — desiderano il pane della verità. Sennonché
  anch’essi avvertono, gustano, apprezzano l’efficacia e il dono della
  bellezza; e per questa via è più facile che la verità risplenda loro e li
  nutra. Questo si propose, questo realizzò l’autore dell’altissimo canto, per
  cui la bellezza divenne ancella della bontà e della verità, e la bontà
  materia della bellezza.     ["Onorate
  l’altissimo poeta"]   [62.] Ma è giunto il
  momento di porre termine alla Nostra impari celebrazione delle lodi di Dante
  Alighieri, concludendo con la viva esortazione: "Onorate l’altissimo
  poeta".   [63.] Tutti l’onorino,
  poiché egli tutti riguarda: onore del nome di cattolico, cantore ecumenico ed
  educatore del genere umano: e con maggior diligenza e più fermo impegno
  l’onorino coloro che più gli sono vicini per religione, carità di patria,
  vicissitudini, affinità di studi.   [64.] Quelli poi che
  più sono dotati non solo abbiano in mano giorno e notte una copia della Divina
  Commedia, sublime capolavoro, ma approfondiscano anche tutto quanto vi
  rimane d’inesplorato e d’oscuro.   [65.] Cerchino tutti di
  leggerla integralmente, senza precipitazione né di corsa, ma con mente
  penetrante e attenta riflessione. Che se, per vari motivi, a molti ciò non
  riesca possibile, che difficilmente si trovi qualcuno che ne ignori il
  contenuto, gl’ideali, le parti e i versi più famosi.     [Conclusione]   [66.] Esortiamo infine
  gli uomini della nostra epoca a perfezionare e illuminare la loro cultura
  incontrandosi con un così alto spirito. Il settimo centenario della sua
  nascita infatti ce lo conduce quale astro luminosissimo, a cui volgere lo
  sguardo e a cui — ostacolati da una selva oscura — chiedere di orientarci
  verso "il dilettoso monte / ch’è principio e cagion di tutta
  gioia" (27).   [67.] Noi, da parte
  Nostra — per tributargli onore nelle presenti solenni celebrazioni, e
  desiderando che se ne conservi il ricordo con un’iniziativa utile al suo
  culto — abbiamo istituito Motu proprio, come abbiamo detto sopra, un
  insegnamento o Cattedra di Studi Danteschi nell’Università Cattolica del
  Sacro Cuore di Milano. E affidiamo tutto ciò che abbiamo stabilito motu
  proprio alla fedele esecuzione del nostro Venerabile Fratello Carlo
  Colombo, Vescovo titolare di Vittoriana, Preside dell’Istituto Giuseppe
  Toniolo di Milano, e, per suo tramite, al Nostro diletto figlio Ezio
  Franceschini, Magnifico Rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di
  Milano.   [68.] Quanto poi con
  questa lettera apostolica, data motu proprio, abbiamo stabilito,
  ordiniamo che sia sempre valido e stabile, senza che alcunché possa essere
  addotto a ostacolo.   Dato in
  Roma, il giorno 7 del mese di dicembre,  festa di
  sant’Ambrogio Vescovo,  anno 1965,
  terzo del Nostro Pontificato. Paolo VI   *** (1) Cfr. Eccli.
  44, 1-5. (2) Cfr. A.A.S.
  XIII, 1921, pp. 209 ss. (3) Par. XXIV, 147. (4) Ibid., 89-90. (5) Par. XXV, 1-9. (6) Inf. XIX, 17. (7) Par. XXII, 42. (8) Ep. XIII, 15. (9) Par. XXX, 40-42. (10) Par. XXIII, 88-89. (11) Ibid., 93. (12) Par. XXXIII, 22-33. (13) Monarchia,
  I, IV, 2. (14) Cfr. Summa
  Theologiae, I, q. 1, a. 8 ad 2; I-II, q. 109, a. 8; I, q.29, a. 3 ad 2. (15) Par. XXII, 151. (16) Par. XXIX, 91-93. (17) Plato, Leg. II, 658 d et ss.; Aristoteles, Poetica, 1461 b 26 et ss. (18) Horatius, Ars poetica, 99-100; cfr. Epist. II, I,
  212-214. (19) Id., Ars poetica, 309. (20) Id., Satir. I, IV, 43-44. (21) Purg. XXIV,
  52-54. (22) Conv. I,
  13. (23) Par. V, 99. (24) Ibid., 8-9. (25) Ibid. I, 61-63. (26) Sap. 13, 3; cfr. H. Bremond, Prière et poésie, Paris
  1926. (27) Inf. I,
  77-78. | |